L’ultimo bilancio di sostenibilità di Gruppo CAP, Sorgente di connessioni, ricorda l’importanza di fare rete per rendere concreta la transizione ecologica.
Pfas nell’acqua, 60mila vicentini li hanno bevuti per anni
Siamo nella valle dell’Agno; a un estremo c’è Valdagno, all’altro Montecchio Maggiore; in mezzo c’è Trissino, dove c’è una fabbrica, la Miteni, che pare che gli Pfas li abbia fatti finire in acqua per quarant’anni. Pochi chilometri più a sud c’è Arzignano, una puzza tremenda anche solo a passare in auto davanti alle sue concerie,
Siamo nella valle dell’Agno; a un estremo c’è Valdagno, all’altro Montecchio Maggiore; in mezzo c’è Trissino, dove c’è una fabbrica, la Miteni, che pare che gli Pfas li abbia fatti finire in acqua per quarant’anni. Pochi chilometri più a sud c’è Arzignano, una puzza tremenda anche solo a passare in auto davanti alle sue concerie, almeno fino a qualche anno fa.
Il vicentino è terra contadina che dagli anni Sessanta in poi si è votata alla fabbrica e all’edilizia. Famiglie numerose dove ogni figlio, appena poteva, costruiva la sua casa. Uno sviluppo impetuoso che ha dei prezzi da pagare. E un prezzo amaro potrebbero averlo pagato inconsapevolmente per anni gli abitanti di mezza valle, bevendo e usando l’acqua di casa loro.
I risultati delle analisi sui Pfas
L’Istituto superiore di sanità, Iss, ha reso noto l’esito del biomonitoraggio (analisi del sangue) realizzato negli scorsi mesi a seguito dell’inquinamento da sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) scoperto tre anni fa. Uno studio che ha riguardato 250 mila persone in Veneto di cui, in modo importante, 60 mila, concentrate nel Vicentino, in particolare a Montecchio Maggiore e nei paesi vicini: Lonigo, Brendola, Creazzo, Altavilla, Sovizzo, Sarego.
Quello che si è scoperto è che le sostanze cancerogene si sono accumulate nel sangue degli abitanti, esponendoli a maggior rischio di malattie croniche o degenerative alla tiroide, fegato e reni. Il disegno dello studio prevedeva la partecipazione di soggetti reclutati tra la popolazione generale e di operatori e residenti in aziende zootecniche. Per questi ultimi lo studio è ancora in corso.
Tutto è nato da una ricerca del 2013 per monitorare eventuali presenze di sostanze chimiche industriali pericolose e tossiche. I valori scoperti fecero scattare azioni di contenimento e controlli (filtri negli acquedotti, analisi nei pozzi, sugli alimenti e sulle persone) che hanno portato alla relazione di questi giorni.
La Procura di Vicenza ha aperto un’inchiesta
La Procura della Repubblica di Vicenza ha aperto un’inchiesta sul caso, che potrebbe portare anche a profilare il reato di disastro ambientale, ma al momento non ci sono indagati. Il procuratore capo, Antonino Cappelleri, esprime però parole molto prudenti, bisogna infatti “capire se effettivamente la sostanza inquinante denunciata esiste e se è stata recepita nelle tabelle dall’Italia così come previsto da una normativa europea”.
I prossimi passi della Regione Veneto
Nella sede della Regione Veneto continuano le riunioni per stabilire il da farsi per la popolazione contaminata. Al momento le azioni previste sono. Uno: indagine epidemiologica retrospettiva, ossia verificare se ci sono dati storici che evidenzino incidenze di tumori e altre malattie croniche nell’area più contaminata. Due: nuova indagine epidemiologica per osservare se nel tempo si svilupperanno malattie. Tre: sono in fase di definizione l’identificazione di esami di prevenzione per diagnosticare eventuali patologie. Quattro: nel 2017 altro screening sul campione (507 persone) del primo biomonitoraggio per verificare l’abbattimento delle concentrazioni.
La Miteni: colpevoli sono le altre aziende della zona
Sul sito dell’azienda è apparso un comunicato che dice che secondo loro: “la presenza di Pfas […] non può essere dovuta alla falda dello stabilimento Miteni. Un’area così vasta va necessariamente riferita al sistema di scarichi consortili a cui sono collegate centinaia di aziende del territorio”. Miteni infatti punta il dito sulle altre aziende della zona: “Pfos e Pfoa vengono usati tutt’oggi da oltre duecento industrie del settore conciario e manifatturiero presenti nella zona che li acquistano sul mercato estero, imprese che sono allacciate agli stessi scarichi consortili a cui è allacciata Miteni”.
Tirate in causa, le concerie respingono le insinuazioni dal momento che – dicono – non producono Pfos o Pfoa, come invece ha fatto la Miteni fino a pochi anni fa.
Acqua vietata, allarme per l’agricoltura
Il presidente regionale della Coldiretti, Martino Cerantola, è decisamente preoccupato: “Nella zona che ha fatto registrare le concentrazioni maggiori di Pfas ci sono almeno 150 aziende, per oltre 1.200 capi di bestiame […] con le ordinanze che hanno chiuso i pozzi come facciamo? I provvedimenti dicono solo che l’acqua non si può utilizzare, ma soluzioni non ne propongono. Per le aziende collegate all’acquedotto si può pensare a un allacciamento alla rete idrica ma per le altre?” Per le altre si prospettano le autobotti finché la situazione non tornerà sotto il livello di guardia. C’è poi il problema dei controlli obbligatori dell’acqua dei pozzi, uno ogni sei mesi, a spese dell’agricoltore.
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