Dal 17 al 23 giugno, Survival International mobilita l’opinione pubblica con una settimana dedicata ai diritti dei popoli incontattati.
Dopo 500 anni, continuiamo a resistere. La lotta degli indigeni brasiliani di Piaçaguera per la loro identità
Un documentario dà voce ai nativi brasiliani che non vivono in Amazzonia ma vicino a San Paolo, nella terra indigena di Piaçaguera, e racconta le battaglie di ieri e di oggi.
Sono 500 anni che resistiamo, e continueremo a resistere
Gli indigeni brasiliani non resistono solo contro il genocidio iniziato con la colonizzazione e il razzismo di una nazione nata dalla segregazione. Oggi affrontano l’ennesimo ostacolo lungo il percorso verso quella che forse, un giorno, si potrà chiamare uguaglianza, ovvero l’elezione del presidente Jair Bolsonaro, alla guida del paese più popoloso dell’America Latina da ottobre dell’anno scorso: un populista di estrema destra conosciuto come il “Trump dei tropici” (ma se le elezioni brasiliane si fossero tenute prima di quelle statunitensi, probabilmente sarebbe il suo omologo a essere chiamato il “Bolsonaro gringo”).
La complessa interazione tra la storia e la contemporaneità dei popoli indigeni in Brasile emerge nel breve documentario intitolato semplicemente Indigenous struggle in Brasil (“la lotta indigena in Brasile”) di Lucca Messer, giovane regista e fotografo diviso tra Londra e San Paolo. Dopo aver vissuto oltre un decennio nella città più grande del Sudamerica, Messer è andato a conoscere e filmare le undici tribù di Piaçaguera, una distesa indigena che dista solo un’ora e mezza da San Paolo. Un’area abitata da 350-400 persone che, come circa metà dei nativi brasiliani, non vivono in Amazzonia.
Terra e diritti indigeni in Brasile sotto Bolsonaro
Il diritto alla terra delle tribù è garantito dalla Costituzione del 1988, che ha segnato la fine di due decenni di dittatura militare, e i loro territori occupano il 13 per cento della superficie del paese. Questo diritto è ora seriamente minacciato da Bolsonaro, il cui disprezzo per i nativi è nettamente in contrasto con la sua amichevolezza nei confronti delle grandi lobby commerciali come quelle agroindustriali e minerarie. Come aveva promesso durante la campagna elettorale, ha inaugurato il suo mandato privando il dipartimento che si occupa delle politiche sugli indigeni, il Funai, della responsabilità di demarcare le loro terre, trasferendola al ministero dell’Agricoltura.
Bolsonaro parla il linguaggio dell’odio per legittimare le sue azioni, incoraggiando il razzismo nei confronti dei nativi e, in concomitanza, lo sfruttamento delle risorse naturali – di cui i territori indigeni, soprattutto in Amazzonia, sono ricchi. Si pensa anche che alcuni episodi di violenza contro gli indios siano stati alimentati dalle sue dichiarazioni, come il recente assassinio del capo della tribù amazzonica dei Waiãpi da parte di minatori illegali di oro.
Sono riconosciuti agli indios la loro organizzazione sociale, i costumi, le lingue, le credenze e le tradizioni, e i diritti originari sulle terre che occupano tradizionalmente, spettando all’Unione la loro demarcazione, la protezione e il rispetto di tutti i loro beni.
Piaçaguera e la ricerca dell’identità nel Brasile di oggi
Benché l’intenzione di Messer non fosse quella di indagare gli effetti delle politiche di Bolsonaro sulle comunità indigene, dal suo documentario emerge la severità (ma anche la bellezza cinematografica) delle condizioni di vita della comunità di Piaçaguera. “Ho sempre sentito il desiderio di parlare con le persone ai margini della società perché hanno qualcosa da dire ma nessuno le ascolta”, spiega il regista. Molti si focalizzano sulle tribù dell’Amazzonia – visto lo stato di salute drammatico di questo ecosistema dove il tasso di deforestazione, cresciuto spaventosamente sotto Bolsonaro, ha quasi raggiunto il punto di non ritorno. Ma lo sguardo di Messer va oltre e ritrae il dramma sociale di una comunità che vive in una piccola fetta dell’1,5 per cento dei territori indigeni brasiliani che si trova al di fuori del polmone verde del Pianeta. Un’area che, a prescindere dal suo valore ecologico, è fondamentale per preservare le culture e gli stili di vita indigeni.
Ci può raccontare la battaglia della comunità di Piaçaguera per la demarcazione della loro terra?
Nel 2016 Dilma Rousseff ha approvato la demarcazione della loro terra prima che iniziasse il processo di impeachment nei suoi confronti. Il suo governo è stato il peggiore per quanto riguarda la definizione dei territori indigeni (non contando quello del suo successore Michel Temer); gli ha approvati solo due mesi prima di lasciare l’incarico. Da allora gli indigeni di Piaçaguera combattono per rimanere dove sono, visto che la demarcazione non protegge necessariamente dagli attacchi politici e sociali. È una vasta area sulla costa meridionale di San Paolo. Questa comunità è costantemente minacciata a causa della sua vicinanza ai centri urbani; ad esempio l’evangelizzazione è molto diffusa e in molti si stanno convertendo.
Nel documentario una donna dice che “molte persone indigene si vergognano di esserlo”. Che difficoltà incontrano i nativi brasiliani nel preservare la loro identità e la loro cultura?
Quando diventano adolescenti, i giovani lasciano le tribù per andare a studiare nella città più vicina. La transizione è immediata – anzi, inesistente –, tutto a un tratto si ritrovano a scuola con persone che non sono indigene e cadono vittime di bullismo e discriminazione. Si sentono soli e isolati, ed entrano in conflitto con la tribù. Il loro meccanismo di difesa è quello di negare la loro identità, schiacciati dai pregiudizi: questo è l’inizio della fine. Ad esempio, il capo spirituale che si vede nel documentario mi ha detto che nessuno lo succederà. Questo è un etnocidio, ovvero l’annientamento della loro identità culturale. Sui mezzi d’informazione si parla molto della deforestazione in Amazzonia, ma bisogna anche prestare attenzione alle implicazioni sociali di questo etnocidio e del genocidio che è iniziato con l’invasione dei portoghesi (nel Sedicesimo secolo, ndr).
Bolsonaro ha promesso che “non ci sarà un solo centimetro in più di terra indigena” e ha paragonato gli abitanti delle riserve native ad animali negli zoo. Perché il presidente brasiliano li disprezza così tanto?
Ci sono circa un milione di indigeni in Brasile, lo 0,4 per cento della popolazione. Bolsonaro li considera comunque un ostacolo perché è completamente contrario alla conservazione delle risorse naturali e della terra. Ma c’è qualcos’altro in gioco, il fatto di volerli eliminare: sono un impedimento al processo di “ripulire” il paese in modo da costruire le fondamenta di quella che, negli occhi del presidente, è la modernità. È come se fossero un parassita di cui si vuole liberare.
In tutto il mondo le popolazioni indigene sono riconosciute come guardiane della natura. Anche quelle di Piaçaguera sono impegnate a favore della protezione ambientale?
Si occupano anche di questo, ma forse meno rispetto alle comunità amazzoniche. Le loro battaglie sono diverse: i popoli dell’Amazzonia difendono la loro terra dallo sfruttamento. Piaçaguera non ha molte risorse che potrebbero essere sottratte, ma anche qui i nativi sentono forte il legame con la terra. La vita indigena origina da essa, da sotto i piedi, questa è la loro divinità, che chiamano Nhanderú. Utilizzano quello che hanno a disposizione al meglio. Piaçaguera è sul mare e il terreno è sabbioso e poco fertile, quindi dipendono dal Funai che gli dà un salario minimo che gli permette di comprare il cibo dal supermercato.
Data anche la vicinanza a San Paolo, gli abitanti di Piaçaguera vorrebbero lasciare la loro terra e cambiare vita?
L’aspetto più interessante riguarda i giovani. Hanno la tecnologia, i telefonini e i social media, vivono vicino ai centri urbani, vanno a scuola con persone che non sono indigene, vengono influenzati da tutto questo. In più, c’è il processo di evangelizzazione. Se immaginiamo una persona in mezzo a un cerchio con delle pistole puntate addosso, beh, la situazione è questa. Sei confinato a questa terra ma hai i social media, quindi sai che potresti fare altro nella vita. Penso che la terra indigena finirà, non sopravviverà. È triste ma penso che sia così.
Ci puoi raccontare di Kelly, il più giovane capo tribale del Brasile quando l’hai intervistata, che nel documentario dice, “sono qui per dimostrare che anche le donne possono essere leader”?
I giovani leader vogliono resistere. Benché Kelly non sia più il capo della tribù, scommetto che saranno le donne a salvare il Pianeta. È stato osservato da molti lo spirito di squadra delle donne nelle comunità indigene; sono compañeras (compagne). Mentre ero lì e parlavo con loro, pensavo, sono fenomenali – e intanto i ragazzi giocavano a calcio. Comunque sia, queste comunità lotteranno fino alla fine, anche se sono in pochi. Nel documentario, l’ultima intervista è con una signora, una donna incredibile, che dice: “sono 500 anni che resistiamo”. È da sempre che resistono, è dai tempi della colonizzazione che stanno lottando.
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