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Piercarlo Grimaldi. Cambiamo il rituale dello shopping per una società diversa
Comprare su misura, con lentezza, e con un occhio alla tradizione. Questa la ricetta di Piercarlo Grimaldi, Antopologo dell’abito e Magnifico Rettore della moda Green Pea.
Dobbiamo tornare a comprare con lentezza, scegliendo con cura quello che ci piace e che ci rappresenta davvero. Perché se siamo (anche) quello che indossiamo e di cui ci circondiamo, per esprimere la nostra personalità appieno abbiamo bisogno di tornare ad acquistare “bene”. E magari, su misura. Questo il pensiero di Piercarlo Grimaldi, Antropologo dell’abito, già Rettore dell’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo-Bra e Magnifico Rettore della moda Green Pea. Lo abbiamo raggiunto virtualmente per una chiacchierata. Ecco cosa ci ha raccontato.
Lei è antropologo, ma ha un passato da sarto. Come rientrano i suoi studi e i suoi interessi nell’avventura di Green Pea?
La mia è la storia di uno che non è mai andato a scuola regolarmente e che ha imparato un mestiere dal padre, sarto di campagna nella langa pavesiana. Mi sono deciso a studiare per conto mio solo verso i vent’anni, ma nel frattempo ho sempre fatto il sarto, fino a quando ho chiuso la sartoria dopo la morte di mio padre. Avevo 28 anni. Nel frattempo, mi sono laureato e ho quindi deciso di percorrere un’altra strada. All’epoca, il mondo della sartoria stava morendo, soppiantato dal processo di globalizzazione e fordizzazione: il nostro modello artigianale è stato distrutto proprio dalla “fabbrica che crea abiti”. È morta una grande professione, anzi, la più antica se si pensa che, dopo il peccato originale, è stato proprio Dio a creare i primi abiti per coprire le nudità di Adamo ed Eva… Durante i tanti anni da accademico, avevo pensato di aver tagliato completamente i ponti col mio passato da sarto, ma non era vero. Negli ultimi anni, ho anzi recuperato la sartoria, legandola a un percorso intellettuale che mi ha dato tanto. Non lo sapevo, ma accumulavo esperienze per arrivare a formulare il progetto per Green Pea. Quando Oscar Farinetti, che fa parte del consiglio di amministrazione dell’Unisg, ha lanciato l’idea di un luogo in cui dare valore al Made in Italy, ho voluto farne parte.
In cosa consiste il progetto?
La sartoria Green Pea ha due anime coesistenti: la sartoria classica “Per filo e per segno” e “Igoodi”, la sartoria del futuro.
Nella sartoria “Per filo e per segno” realizziamo riparazioni e personalizzazioni, nel modo più tradizionale possibile. Al suo fianco si trova Igoodi, una startup che crea l’avatar delle persone e ne prende perfettamente le misure funzionali, mettendo in evidenza anche eventuali asperità. Una volta trasmessi i dati all’azienda di confezionamento, si crea l’abito su misura, che è unico e che rispetta perfettamente le esigenze della persona. Non serve avere varietà di taglie, che magari restano invendute. Significa quindi produrre anche in modo più sostenibile, senza sprechi. Con questo progetto, possiamo ridare identità dove l’abbiamo persa nella complessità della struttura di confezione, che propone modelli tutti uguali e standardizzati. La persona è in grado di scegliere in che modo autorappresentarsi. Un tema importante, dal momento che abbiamo perso il legame tra l’abito e i riti di passaggio della vita. Questo sistema ci permette di recuperarli. Permette di dare un contributo allo sviluppo di una società diversa, dove l’uomo letteralmente indossa la sua identità. Questo dovrebbe essere il percorso, anche per valorizzare il Made in Italy.
Cos’è per lei il Made in Italy?
L’ho riscoperto studiando Lévi-Strauss, che ricorda come i contadini siano capaci di fare il bricolage, non buttando via nulla. Con capacità creativa, mettono insieme i resti di due oggetti rotti e ne creano un terzo. Quando si è sviluppato il modello industriale, abbiamo preso i contadini e li abbiamo portati in fabbrica. Così si spiega la capacità artigianale di quella che abbiamo chiamato “aristocrazia operaia”. Quella capacità creativa ci appartiene ancora, e si coniuga con la bellezza del patrimonio culturale italiano. I nostri musei, per esempio, ci offrono migliaia di spunti per creare nuovi abiti. Tutto questo è Made in Italy. Oggi credo che Green Pea sia la vetrina più importante di questa espressione, della creatività contadina che si coniuga con la cultura e si riflette in questo modello.
Fare shopping è un rituale contemporaneo: secondo lei, Green Pea lo può cambiare?
Io sono sicuro di sì. Oggi, quello dello shopping è un rituale stanco, di una persona che non sa più come occupare il proprio tempo e che quindi finisce, quasi obbligatoriamente, nei grandi centri commerciali o nelle zone dedicate allo shopping, come il quadrilatero della moda di Milano, dove si sente quasi costretta a comprare a tutti i costi qualcosa. Non va bene. Il rituale deve essere diverso. Bisogna poter scegliere con cura e con lentezza i propri acquisti. Dobbiamo tornare a stabilire un rapporto diretto tra umani. Forse Green Pea ha come tratto principale quello di darci degli indirizzi di senso che vanno verso un tempo e uno spazio usati diversamente. Oggi concepiamo il tempo dello shopping in modo cronometrico, tracciamo i pacchi dei nostri acquisti e sappiamo dove sono ogni minuto, ma non c’è nulla di umano in questo, si tratta solo di automatismi. Dobbiamo invece ritrovare il gusto di parlare con le persone.
Come antropologo, studierà gli acquisti delle persone e i loro comportamenti?
Credo che lo farò. Sono convinto che arriveranno delle risposte prima dai giovani ma anche dagli anziani, attratti dal recupero della memoria. Sono anche convinto che vi sia il bisogno di ritrovare se stessi e il senso di comunità attraverso gli acquisti. I negozi di Green Pea riflettono bene questo modello: sono comunità, non sono solo luoghi in cui vendere il prodotto, ma soprattutto sono luoghi per narrare il prodotto. E nella narrazione c’è sempre la necessità di trovare ciò che è bello e giusto. E di soddisfare il bisogno di natura e del tempo perduto, che è quello della tradizione. In Green Pea ricorre la narrazione della natura, attraverso spazi dedicati al cibo, alla lettura, al riposo, e a tutti quegli elementi che sono i tratti distintivi dell’essere umano.
Una proposta come Green Pea può contribuire al cambiamento della società?
Secondo me sì, sapendo che dobbiamo coniugare tradizione e modernità. La grande industria puntava sulla tecnologia, ma lasciava da parte la cultura del progetto. Oggi la cultura del progetto sopravanza l’aspetto tecnologico e matematico. Se ci pensiamo, non c’è differenza tra narrare e contare, tanto che in alcuni dialetti del nord narrare e contare sono sinonimi! Solo coniugando questi aspetti, possiamo contribuire a creare una società diversa.
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