Don Pino Puglisi fu ammazzato dalla mafia il 15 settembre 1993. Con la sua parrocchia e il suo coraggio offrì a Palermo un’alternativa. Questa è la sua storia.
Ventidue ragazzini, probabilmente qualcuno di meno, forse qualcuno in più: non aveva importanza. Né avevano importanza l’età, i ruoli, che i colori delle magliette fossero diversi abbastanza da distinguere le due squadre. Quel giorno avrebbero comunque vinto tutti. Quelli che avevano preso a calci il pallone, quelli rimasti a guardare tutto attorno, quelli che avevano portato le bottiglie d’acqua. Perfino quelli affacciati, stupiti, ai balconi dei palazzi circostanti.
Don Pino Puglisi era stato mandato alla parrocchia di San Gaetano, nel cuore del quartiere Brancaccio, a Palermo, nel settembre del 1990. Catapultato in uno dei feudi della mafia siciliana. Lì a comandare erano le cosche, con i rampanti e in piena ascesa fratelli Filippo e Giuseppe Graviano, diventati reggenti del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, al posto del boss Giuseppe Lucchese (che era stato arrestato). Con la benedizione del capo dei capi, Totò Riina.
"Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto"#15settembre 1993
Don Pino Puglisi viene ucciso dalla mafia a Brancaccio.
Appena arrivato in quel luogo fuori dal controllo delle istituzioni, dove vigeva una sospensione di fatto dello stato di diritto, don Puglisi aveva capito tutto. Aveva capito che Brancaccio, come l’intera Palermo, era lacerata. Un muro immaginario divideva, da una parte, la criminalità organizzata, chi ne faceva parte, chi la fiancheggiava, chi la copriva, nella pubblica amministrazione, negli ospedali, nei bar, nell’omertà di chi si voltava dall’altra parte e perfino nelle forze dell’ordine, nei palazzi di giustizia; e poi chi lavorava in modo onesto, disprezzava i metodi mafiosi, vedeva e sapeva, anche se non sempre aveva la forza, il coraggio o la possibilità di denunciare, ribellarsi, combattere.
La parrocchia di via Brancaccio, ambasciata di un altro mondo possibile
In tutto questo, la parrocchia di San Gaetano diventerà in breve un interludio nella vita del quartiere. Una zona franca, l’ambasciata di un altro mondo possibile. Quando arrivò, don Pino capì che quelle strade erano state abbandonate. La mancanza di servizi, di luoghi ricreativi, di spazi per i ragazzi erano l’emblema dell’assenza dello stato e al contempo dell’onnipresenza delle cosche.
A Brancaccio non c’era niente. Non c’era un teatro, non c’era un cinema. Uscendo dal grande portone di legno della chiesa, dirigendosi a sinistra, verso l’estrema periferia di quella Palermo martoriata, via Brancaccio si biforca e cambia nome. Diventa via Conte Federico. La prima traversa a sinistra, a neanche cento metri dal sagrato, è via Simoncini Scaglione. Una stradina anonima. Palazzine, saracinesche, macchine parcheggiate dove capita, immondizia abbandonata. Qui c’era un campetto di calcio improvvisato, con le porte sgangherate tenute su con dei bidoni. Ma quando bastava ai ragazzini del quartiere per tornare a casa sudati e felici.
“Quando don Pino arrivò fra queste strade, scopri subito che gli scantinati sotto al campo e all’enorme palazzo accanto erano stati espropriati del tutto dal clan, per gestire gli affari criminali di famiglia, lo spaccio di droga soprattutto. Ecco perché era così importante quello spazio”, racconta Salvo Palazzolo nel libro “I fratelli Graviano”. Per questo don Puglisi volle organizzare una partita di calcio. E voleva che si giocasse proprio lì.
Quella partita di calcio che fece tanto, tanto rumore
“Mi sembra di vederlo don Pino che ha appena portato un pallone nuovo di zecca – prosegue Palazzolo -. Giuseppe sta arrivando con altri bambini incontrati per le strade del quartiere. È un ragazzone muscoloso e atletico Giuseppe, ha il piglio dell’allenatore, il parroco l’ha voluto in squadra soprattutto perché ha delle parentele pesanti a Brancaccio e fino a qualche tempo fa giocava a calcetto con Benedetto Graviano (il terzo fratello maschio della famiglia mafiosa, al quale si aggiunge la sola sorella, Nunzia, ndr) e altri personaggi vicini al clan. ‘Ora Giuseppe è il nostro bomber – sorride don Pino -, abbiamo fatto un gran colpo strappandolo alla squadra avversaria’. Ragazzi, tutti in campo, riprendiamoci Brancaccio. La gente si affaccia ai balconi, sorpresa. Che sta succedendo? E che vuole fare questo parrino? Passa, alza, vai di testa, tira. Goal!”.
Fece rumore quella partita. Tanto, tantissimo. Quel parroco era arrivato come dal nulla. Aveva tuonato contro la devastazione sociale e morale imposta dalla mafia. Aveva messo assieme famiglie, anziani, giovani, bambini. Aveva dato loro coraggio per combattere, voce per uscire dal silenzio. Aveva offerto alternative. Anche semplicemente facendo rotolare un pallone.
Papa Francesco: “Un uomo di Dio che ha prediletto gli indifesi”
“Sull’esempio di Gesù, Don Pino è andato fino in fondo nell’amore. Possedeva i medesimi tratti del ‘buon pastore’ mite e umile: i suoi ragazzi, che conosceva uno ad uno, sono la testimonianza di un uomo di Dio che ha prediletto i piccoli e gli indifesi, li ha educati alla libertà, ad amare la vita e a rispettarla”, ha scritto papa Francesco in una lettera in occasione del trentennale della morte.
“Sovente – ha aggiunto Bergoglio – ha gridato con semplicità evangelica il senso del suo instancabile impegno in difesa della famiglia, dei tanti bambini destinati troppo presto a divenire adulti e condannati alla sofferenza, nonché l’urgenza di comunicare loro i valori di una esistenza più dignitosa, strappandola così alla schiavitù del male. Questo sacerdote non si è fermato, ha dato sé stesso per amore abbracciando la Croce sino all’effusione del sangue”.
Chi era Pino Puglisi: sacerdote di strada, che la strada la ripuliva
Giuseppe Puglisi era nato a Brancaccio durante il ventennio fascista. Suo padre, Carmelo, faceva il calzolaio, mentre sua madre, Giuseppe Fana, la sarta. Già a 16 anni entrò nel seminario arcivescovile di Palermo. E sei anni più tardi fu ordinato sacerdote. Inizialmente fu nominato vicario nel quartiere di Settecannoli (ancor più periferico rispetto a Brancaccio), quindi sarà rettore della chiesa di San Giovanni dei lebbrosi, prima di lavorare presso un orfanotrofio. Esperienze che lo porteranno a sviluppare una vocazione per l’insegnamento, che lo portò in cattedra in numerose scuole: dall’istituto professionale Einaudi alla scuola media di Villafrati, dalla magistrale di Santa Macrina al liceo classico Vittorio Emanuele II.
Ma soprattutto, don Pino era un sacerdote di strada, che la strada la ripuliva. E molti ormai lo seguivano. Come nel caso di Pino Martinez, Giuseppe Guida e Mario Romano. Erano membri del comitato intercondominale di via Azolino Hazon, parallela di via Brancaccio, verso la ferrovia. Il 29 giugno 1993, in piena notte, tre uomini salgono nella palazzo dove vivevano quei semplici cittadini, rei di essersi impegnati nel tentare di riscattare il quartiere. In mano portano delle taniche di benzina. Sono Gaspare Spatuzza, Salvatore Grigoli detto “il cacciatore”, e Vito Federico, esperto di attentati incendiari.
Ad andare in fiamme, stavolta, sono le porte degli appartamenti di Martinez, Guida e Romano: “Don Pino e il comitato hanno iniziato a fare cose semplici, ma rivoluzionarie per Palermo: scrivere alle istituzioni, organizzare iniziative, denunciare. Hanno acceso i riflettori su questa parte di città che sembra dimenticata dalla politica e dalla società civile”, racconta Palazzolo. I tre davano fastidio, e soprattutto si erano schierati con il parrino di San Gaetano.
Eppure, sia quel sacerdote dal volto placido che il comitato non demordono. Alla messa della domenica successiva, don Pino Puglisi si rivolge ai mafiosi – di cui conosce storia, volti, nomi e cognomi, con parole di disarmante semplicità: “Vorrei capire quali sono i motivi che vi spingono ad ostacolare chi sta operando per tentare di realizzare a Brancaccio una scuola media, un distretto socio-sanitario, una società migliore per tutti i nostri figli. Parliamone, discutiamone… chi usa la violenza non è un uomo; chi si macchia di atroci delitti è simile alle bestie”.
Gli avvertimenti mafiosi anche a chi seguiva Pino Puglisi
E facendo riferimento all’avvertimento mafioso, chiede alla comunità di unirsi, di non aver paura, di fare scudo: “Tutti noi siamo stati colpiti, è come se avessero bruciato la porta di casa a tutti noi”. La parrocchia e il comitato continuano imperterriti a chiedere interventi alle istituzioni locali. Scrivono lettere, chiedono incontri, sollecitano, insistono, fanno rumore, affinché si investa sul territorio. Si garantiscano i servizi che mancano. Si diano risposte. Che però non arriveranno mai. Troppo poche le persone che avevano il coraggio di “mettersi di traverso” nella Palermo degli anni Novanta. Tanto più a Brancaccio.
Ma, esattamente come accaduto per giudici, poliziotti, carabinieri, politici onesti, imprenditori dalla schiena dritta, don Puglisi andava fatto tacere. I reggenti del mandamento sapevano che nessun avvertimento avrebbe convinto quel sacerdote a smetterla.
I fratelli Graviano sono stati considerati mandanti di tutti gli attentati di quel tragico 1993. Compreso il delitto efferato nel quale perse la vita padre Pino Puglisi. Il 15 settembre era il suo compleanno: aveva soffiato 56 candeline. Erano le 20:40 e stava rientrando a casa, in piazzale Anita Garibaldi. Don Pino era sceso dalla sua Fiat Uno bianca ed era quasi al portone quando qualcuno uno dei due sicari lo chiamò: “Padre, questa è una rapina”. Ma il sacerdote sapeva benissimo che non era così: “Vi stavo aspettando”, rispose. Pochi istanti dopo venne sparato un colpo di pistola da un altro mafioso. Alla nuca.
La beatificazione e il ricordo di don Pino
La causa di beatificazione di Padre Giuseppe Puglisi è stata avviata il 15 settembre del 1999, dal cardinale Salvatore De Giorgi. Quattordici anni più tardi sarà papa Ratzinger a concedere il decreto di beatificazione per il martirio in odium fidei. Nel frattempo, al sacerdote ucciso dalla mafia sono state intitolate diverse scuole, anche a Palermo.
Sapeva di essere nel mirino dei boss, ma non abbandonò mai Brancaccio. Il sacrificio di #donPinoPuglisi, il Beato Pino Puglisi, ucciso a #Palermo il 15 settembre 1993 nel giorno del suo compleanno, è una pagina di eroismo, di dedizione: di autentica fede nel bene contro il male. pic.twitter.com/p7Ss82pPiV
Per il suo omicidio, il 19 giugno 1997, fu arrestato Salvatore Grigoli, accusato di essere l’esecutore materiale del delitto. Il mafioso si pentì poco dopo essere finito in manette, confessando 46 omicidi, tra i quali quello di don Pino. L’altro killer era Gaspare Spatuzza. Il 5 ottobre 1999 Giuseppe Graviano fu condannato all’ergastolo come mandante; stessa sorte per il fratello Filippo, il 19 febbraio 2001, e per gli altri due mafiosi che composero il commando: Luigi Giacalone e Cosimo Lo Nigro.
Per ammazzare il parrino si scomodarono i vertici della mafia
Per don Puglisi si erano scomodati i vertici di Cosa Nostra. D’altra parte, tanti anni dopo l’omicidio, il 14 settembre 2013, Totò Riina venne intercettato nel carcere di Opera, a Milano. Chiacchierava nell’ora d’aria con un boss pugliese, Alberto Lorusso. Spiegandogli che i fratelli Graviano erano “bravi ragazzi”. E che quel prete doveva essere ammazzato, perché “il quartiere lo voleva comandare iddu. Ma insomma, deve comandare il parrino? Andava inquietannu la gente. Tutte cose voleva fare iddu. E allora ammazziamolo!”.
Totò Riina su una cosa aveva ragione: don Puglisi non si sarebbe fermato mai. Chissà quante altre lettere avrebbe scritto al Comune di Palermo, agli assessorati, alla Regione. Chissà quante partite di calcio avrebbe organizzato nel campetto di via Scaglione. Chissà quanti ragazzi avrebbe strappato dalla strada. Quante famiglie avrebbe aiutato. E magari, alla fine, avrebbe davvero fatto aprire la scuola media e un centro socio-sanitario a Brancaccio. Sotto al naso dei boss.
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