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La plastica dilaga negli oceani mettendo in pericolo 690 specie marine, alcune delle quali a rischio estinzione. Microplastiche e microfibre le minacce peggiori. Un focus per la Giornata mondiale degli oceani 2017.
Ogni anno si stima che otto milioni di tonnellate, per un valore di 19,5 miliardi di euro, di plastica fluttuano negli oceani. L’80 per cento dei rifiuti oceanici è di origine antropica e proviene dalla terra ferma, mentre il restante 20 per cento arriva dalle navi – navi da crociera, mercantili o piattaforme marine, come quelle petrolifere. Se non si cambia lo stile di vita, secondo il rapporto Stemming the Tide, prodotto da Ocean Conservancy, nel 2025 ci potrebbe essere una tonnellata di plastica per ogni tre tonnellate di pesci nell’oceano.
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— Juan Pittau ? (@juanpittau) 24 agosto 2013
Un “mare” (di plastica) nel mare che compromette la stessa sussistenza dell’ecosistema marino. Rifiuti, detriti, attrezzi da pasca, sacchetti di plastica e perfino le cannucce rappresentano una minaccia mortale per la vita marina.
Filo e reti da pesca sono pericolosi non solo quando vengono utilizzati per pescare, ma continuano a minacciare uccelli, tartarughe e cetacei anche quando ormai hanno terminato la loro funzione primaria, avvolgendosi in un abbraccio mortale attorno agli animali. I sacchetti di plastica vengono facilmente scambiati per meduse e inghiottiti come alimento, mentre le cannucce di plastica possono bloccarsi in una narice, nell’occhio o addirittura in gola di una tartaruga marina o di un qualsiasi altro animale marino. Secondo un recente studio sono 690 le specie minacciate dai rifiuti presenti in mare: il 17 per cento di queste sono inserite nelle liste rosse degli animali in pericolo di estinzione, il 92 per cento sono messe in pericolo dalla plastica e il 10 per cento ha ingerito microplastiche.
Le previsioni per il futuro sono tutt’altro che rosee, secondo un report realizzato dalla fondazione Ellen MacArthur, assieme al centro studi McKinsey, nel 2050 ci sarà più plastica che pesci negli oceani. Secondo l’analisi, il rapporto tra le tonnellate di plastica presenti negli oceani e quelle di pesce, che attualmente è di uno a cinque, diventerà di uno a tre già nel 2025. Quindi, un quarto di secolo più tardi, il quantitativo di pesce presente nel mare sarà inferiore rispetto a quello di rifiuti di plastica.
Ma il problema è molto più capillare e radicato di quanto si possa immaginare. Quando si parla di plastica si pensa immediatamente alle isole galleggianti di rifiuti, in realtà la questione è molto più complessa e a impattare sugli animali marini sono soprattutto le microplastiche, frammenti di plastica inferiori ai 5 millimetri, che possono essere prodotte dall’industria (ad esempio le microsfere utilizzate in cosmetica o per l’igiene personale, i dentifrici ne sono particolarmente ricchi) o derivare dalla degradazione in mare per effetto del vento, del moto ondoso o della luce ultravioletta di oggetti di plastica più grandi.
Le microplastiche affliggono tutti gli animali marini, dal microscopico krill (l’insieme di piccoli crostacei che rappresentano la primaria fonte di cibo per molti animali marini) fino ai grandi predatori all’apice della catena alimentare, per arrivare a noi attraverso il cibo che mangiamo.
Secondo i dati di Greenpeace nei mari di tutto il Pianeta si trovano dai 5mila ai 50mila miliardi di microplastiche e i dati dell’Unep rilevano che nel Mediterraneo nuotano 250 miliardi di frammenti e ogni anno ammontano a circa 677 tonnellate, anche se quasi il 90 per cento sono frammenti di oggetti più grandi, come bottiglie o tappi.
Nel 1960 la plastica era stata trovata nello stomaco di meno del 5 per cento degli uccelli marini, la percentuale era salita già all’80 per cento nel 2010. In base agli attuali trend, si stima che l’ingestione di plastica interesserà addirittura il 99 per cento di tutte le specie di uccelli marini entro il 2050. Sono i dati contenuti nello studio pubblicato sui Proceedings of the national academy of sciences e prodotto dai ricercatori dell’Imperial College di Londra e della Commonwealth Scientific and Industrial Research Organisation (Csiro) in Australia. I ricercatori rilevano che oggi il 90 per cento degli uccelli marini, tra cui albatross, berte e pinguini, ha ingerito materiale di plastica di diverso genere, dai sacchetti, tappi di bottiglia, fino alle fibre di abiti sintetici.
Gli uccelli scambiano gli oggetti dai colori vivaci per cibo oppure li ingeriscono accidentalmente e l’impatto sulla loro salute può essere devastante: da varie forme di avvelenamento fino alla morte. Tartarughe e cetacei mangiano sacchetti di plastica pensando siano meduse, gli squali scambiano pezzi di plastica per pesci. Nonostante queste osservazioni, gli scienziati non riescono a giustificare come mai così tanti animali, dal plancton alle balene, incappino in questo errore che spesso può essergli fatale.
Una motivazione potrebbe arrivare da un nuovo studio, pubblicato sulla rivista Science Advances, secondo cui la risposta potrebbe essere perché la plastica ha lo stesso odore del cibo. Il krill si nutre di alghe. Quando queste muoiono e si decompongono, emettono un odore di zolfo generato dal solfuro dimetile (Dms). Gli uccelli marini hanno imparato che quest’odore indica la presenza di krill.
Secondo la ricerca i rifiuti plastici sono un supporto ideale per la crescita delle alghe, quello strato un po’ viscido e verdino che spesso ricopre i pezzi di plastica che troviamo in mare. Quando le alghe muoiono e si decompongono emettono l’odore del solfuro dimetile e gli uccelli marini, che usano l’olfatto per procurarsi il cibo, vengono ingannati da quelle che sono definite “trappole olfattive” che li inducono a scambiare la plastica per il krill.
La plastica può avere diversi effetti sugli animali marini, dal soffocamento all’avvelenamento. Un video del National Geographic rappresenta in modo molto efficace la sensazione di un animale quando si imbatte in un pezzo di plastica.
Il lavaggio degli indumenti è una minaccia per i nostri mari. Ci hanno sempre spiegato che i detersivi inquinano le acque, per questo bisogna usarli con parsimonia e possibilmente biodegradabili, senza sbancanti ottici. Ma non ci hanno mai detto che lavare gli indumenti è una fonte di inquinamento per tutte le microfibre di plastica che gli indumenti di poliestere rilasciano a ogni lavaggio. Oggi si stima che ci siano nelle acque marine di 1,4 milioni di trilioni di microfibre.
Oggi il 60 per cento di capi di abbigliamento prodotto è fatto con materiale sintetico, e secondo un recente studio pubblicato sulla rivista Environmental science and technology, a ogni lavaggio grandi quantità di fibre sintetiche come acrilico, polietilene, polipropilene, poliammide e poliestere si staccano dai vestiti e arrivano fino alle acque dei mari, e non c’è trattamento degli scarichi che lo possa evitare.
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