Per la Giornata mondiale dell’ambiente del 5 giugno, abbiamo scelto otto tecnologie che combattono l’inquinamento da plastica nei mari e nei fiumi.
La plastica che galleggia negli oceani ospita nuove comunità di organismi viventi
Le enormi quantità di rifiuti di plastica presenti negli oceani, come il Pacific trash vortex, ospitano nuovi ecosistemi dove prosperano piccoli organismi viventi, soliti colonizzare le coste.
C’è vita tra i rifiuti. Anzi, ci sono intere comunità vegetali ed animali che sopravvivono in condizioni prima considerate inospitali per le specie costiere, adattate cioè per svilupparsi vicino alle coste e non in mare aperto. I ricercatori le hanno definite come “comunità neopelagiche“, ovvero nuovi ecosistemi emergenti capaci di prosperare a lungo ed avviare catene trofiche ben sviluppate tra le isole galleggianti presenti al largo degli oceani, come il già noto Pacific trash vortex (isola di plastica nel Pacifico), che gli scienziati ritengono possa coprire circa 1,6 milioni di chilometri quadrati. È questa la conclusione alla quale sono giunti i ricercatori che, in uno studio pubblicato su Nature communications, spiegano come i detriti di plastica galleggianti provenienti dall’inquinamento ambientale, plastica in primis, siano in grado di supportare nuove comunità marine composte sia da specie costiere che oceaniche, che potrebbero dimostrare significativi cambiamenti ecologici dell’ambiente marino.
Nuovi ecosistemi creati dall’uomo grazie alla plastica
Più precisamente si tratta del fenomeno noto anche come rafting oceanico, ovvero della presenza di detriti galleggianti quali alberi, semi o pomice che possono essere colonizzati da cirripedi o briozoi. Questo tipo di detriti però sono caratterizzati dalla biodegradabilità, e di conseguenza da una temporaneità del supporto vitale in aree considerate di mare aperto. Ma con l’aumento costante dell’inquinamento da plastica, si sono venute a realizzare nuove condizioni che permettono anche a specie costiere, come gli idrozoi (Pluma Aglaophenia) e gli anemoni (Anthopleura sp) di proliferare.
I primi esempi e le prime prove di queste nuove “comunità” marine si ebbero già nel 2011, dopo lo tsunami che sconvolse gran parte del Giappone: centinaia di specie marine costiere giapponesi furono trovate vive sui detriti spiaggiati sulle coste del Pacifico nordamericano e delle isole Hawaii, dopo aver viaggiato per oltre 6mila chilometri attraverso l’Oceano Pacifico. Tra i casi più eclatanti quella di una nave identificata giapponese spiaggiata nell’Oregon meridionale il 13 maggio 2020 con dieci specie di invertebrati viventi a bordo, tutte rappresentative dell’Oceano Pacifico nordoccidentale, tra cui la cozza Musculus cupreus, il briozoo Bugula tsunamiensis e l’isopode Ianiropsis serricaudis.
Una nuova comunità marina, la plastisfera
Già nel 2013, in uno studio pubblicato su Pubmed, si iniziava a parlare di “plastisfera”, come una comunità microbica di eterotrofi, autotrofi, predatori e simbionti che proliferavano sui detriti plastici presenti in quantità nel Nord Atlantico. Non solo ma si è anche scoperto, analizzando l’Rna ribosomiale degli organismi, che diversi batteri sarebbero capaci di degradare gli idrocarburi, supportando la possibilità che i microbi svolgano un ruolo nella degradazione dei detriti plastici.
In un’altra ricerca si evidenziava invece come le microplastiche disciolte nelle acque oceaniche potessero essere vettori per biofilm colonizzati da batteri e altri patogeni potenzialmente pericolosi per la salute degli organismi acquatici
Ora, grazie ai più recenti campionamenti si è dimostrato come le specie costiere non sono solo presenti, ma sono comuni sui detriti di plastica galleggianti, come le reti da pesca abbandonati in alto mare, modificando l’ipotesi che si trattasse di comunità temporanee e alterando di fatto la biodiversità marina.
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