C’è qualcosa che accomuna le cale di sabbia bianchissima della Sardegna con gli impervi fiordi norvegesi. Entrambi sono minacciati da una delle più serie emergenze ambientali della nostra epoca, la plastica. Ogni anno nei mari dell’Unione europea finiscono tra le 150mila e le 500mila tonnellate di rifiuti in plastica. Con tutto ciò che ne consegue per gli ecosistemi e anche per l’economia: si stima che i danni ambientali arrivino a costare 22 miliardi di euro entro il 2030. Oscilla tra le 75mila e le 300mila tonnellate, invece, la quantità di microplastiche (cioè di piccole particelle) disperse nell’ambiente, direttamente o per la frammentazione di rifiuti più grandi.
Negli ultimi anni questa è diventata una delle assolute priorità per il Parlamento europeo che la sta affrontando sia a monte, con l’intento di ridurne l’uso (e, di conseguenza, la quantità di rifiuti), sia a valle, con l’intento di incrementare la quota di riciclo. Le iniziative messe in pista sono destinate a rivoluzionare le nostre abitudini e, proprio per questo, non possono essere banalmente calate dall’alto. È essenziale che ad accoglierle ci sia una cittadinanza preparata, attenta e disposta a mettersi un po’ in gioco.
Meno plastica monouso grazie al Parlamento europeo
Come prima cosa, dunque, l’uso della plastica va limitato solo ai casi in cui è davvero la migliore (o l’unica) opzione possibile. Attualmente a fare la parte del leone sono gli imballaggi che assorbono il 40 per cento della produzione europea. Un altro 22 per cento è destinato a mobili e beni domestici, il 20 per cento a materiali edili e da costruzione, il 9 per cento ad auto e autocarri. Infine, un altro 6 per cento è usato per i materiali elettrici ed elettronici.
“È necessario cambiare approccio. Non dobbiamo creare senza considerare le conseguenze. Piuttosto, consideriamo le conseguenze e adeguiamo il prodotto. Un esempio su tutti: la cannuccia è da sempre stata in plastica. Ora abbiamo deciso che può essere in carta, oppure in vetro, in bambù, in acciaio. Materiali esistenti già da tempo, ma mai considerati”, sostiene Lucia Vuolo, eurodeputata del gruppo Identità e democrazia.
Su questo fronte il Parlamento europeo si è dimostrato risoluto. Prima ha introdotto forti limitazioni all’uso di sacchetti in plastica leggera che, dal 2018, non possono più essere forniti gratuitamente. Poi ha chiesto alla Commissione di impedire che le microplastiche vengano introdotte volontariamente nelle formulazioni dei cosmetici; ma in questo caso l’iter sarà più lungo perché la proposta è dovuta passare al vaglio dell’Agenzia chimica europea (Echa). Dopodiché ha approvato la direttiva che a partire da luglio di quest’anno mette al bando posate, piatti e bastoncini per palloncini in plastica monouso. Oggetti che hanno una vita utile di pochi minuti e, per contro, inquinano per secoli.
Ne sa qualcosa l’indomito Pasquale, meglio noto come “nonno plastic free”. Abruzzese, 94 anni, le sue estati le trascorre così: ogni mattina si mette al volante, raggiunge la spiaggia, piazza la sua seggiola e raccoglie bottigliette e rifiuti. “Il nostro Pianeta è bello, è un incanto, solo noi non agiamo bene”, chiosa.
È scoppiata una pandemia di plastica
A un problema che era già parecchio intricato però si è andata a sommare anche la pandemia. Negli ultimi mesi anche i più ardenti ambientalisti si sono arresi all’onnipresenza di guanti monouso, mascherine e sacchetti in cui chiudere gli oggetti nel tentativo di evitare contaminazioni. E non è finita qui. Impossibilitati a spostarsi, hanno preso l’abitudine di ordinare a casa la spesa di frutta e verdura, le immancabili mascherine, i più svariati beni di consumo (dal maglione al quaderno di scuola), i piatti sfornati dal ristorante preferito. Tutti, manco a dirlo, imballati all’interno di materiali plastici. “Per comprendere la complessità del problema basta alzare la testa e guardare intorno a noi. La plastica è ovunque”, commenta Lucia Vuolo.
Tra i vari danni fatti dal coronavirus c'è anche quello ambientale. La plastica monouso è tornata di moda e in strada si vedono spesso mascherine buttate via o perse. Il covid passerà ma la plastica lasciata in giro durerà molto ma molto di più. Ricordiamocelo!
Il Parlamento europeo non è rimasto fermo a guardare, ma ha proposto alla Commissione di ridurre gli imballaggi, inclusi i contenitori per il cibo da asporto, migliorare la riciclabilità, ridurre al minimo la complessità degli imballaggi e promuoverne il riutilizzo. A raccontarlo a LifeGate è Eleonora Evi, eurodeputata del gruppo dei Verdi/Alleanza libera europea, che fa parte – insieme a Vuolo – della Commissione per l’ambiente, la sanità pubblica e la sicurezza alimentare (Envi)
Plastica vergine e riciclata, i conti non tornano
Nei casi in cui proprio non se ne può fare a meno, è auspicabile che questa plastica sia secondaria, cioè prodotta a partire dal riciclo anziché con il petrolio. Si è mosso in questa direzione il Parlamento europeo, chiedendo alla Commissione di stabilire standard qualitativi per la plastica riciclata e di imporre che venga impiegata per realizzare alcune tipologie di prodotti. Insomma, bisogna dare linfa a un mercato che in questo momento ha dimensioni risicate: se equipariamo a 100 la domanda europea di plastica, quella riciclata vale solo 6.
Questo principio logico, però, si infrange contro uno scoglio di carattere economico. Con la paralisi dei trasporti degli ultimi mesi, infatti, il prezzo del petrolio è sprofondato. Il risultato? Un boom della domanda di plastica proprio in un momento in cui era offerta a prezzi stracciati. Dopo la Covid-19, realizzare una bottiglia da materia prima riciclata significa sobbarcarsi un costo che supera dell’83-93 per cento quello della materia prima vergine. Lo dice un’analisi dell’Independent commodity intelligence services (Icis), citata da Reuters. Non stupisce dunque che gli operatori del riciclo, interpellati dall’agenzia di stampa britannica, riportino un calo del 20 per cento del loro volume d’affari in Europa.
"Everyone today is affected by plastic but we have the solution." Ali Skanda
Nell’arco dei prossimi cinque anni, i colossi globali delle fossili hanno in programma di spendere circa 400 miliardi di dollari per gli impianti di produzione di materie prime per la plastica vergine, rivela uno studio di Carbon Tracker. Ben più striminziti – appena 2 miliardi di dollari – gli investimenti per ridurre la quantità di rifiuti. Peccato, però, che produrre quattro bottiglie (un’inezia anche per i consumi di un singolo) comporti emissioni di gas serra equivalenti a quelle generate guidando un’auto per oltre un chilometro e mezzo.
Esiste una via d’uscita? Evi ne propone due: eliminare i sussidi alle fonti fossili e sostenere il mercato delle materie prime secondarie mediante incentivi fiscali ad hoc. Allargando ancora lo sguardo, aspira a “introdurre una fiscalità ambientale che avvantaggi i prodotti puliti e penalizzi quelli impattanti”; insomma, una sorta di “Iva verde,perché fin quando continueremo a incentivare le fonti fossili, la produzione di plastica vergine godrà sempre di un vantaggio competitivo rispetto alla plastica riciclata”. Vuolo, invece, suggerisce di lavorare insieme agli operatori del settore senza sobbarcarli di ulteriori costi.
Una delle proposte del Parlamento europeo per le nuove fonti di entrata dell’UE è un contributo basato su rifiuti da imballaggi di plastica non riciclati. Quali sono le altre proposte? Leggi 👉 https://t.co/FSmenLleILpic.twitter.com/zj4uPZzguw
Se la plastica riciclata è così cara è anche perché serve un’enorme quantità di materia prima per produrla. L’equazione viene da sé: all’aumentare della quota materiale che viene sottoposto a riciclaggio, i costi scendono e il mercato si rafforza. È per questo che, tra gli obiettivi del Parlamento europeo, c’è anche quello di rivedere le norme sui cosiddetti “requisiti essenziali” degli imballaggi in plastica per fare in modo che siano tutti riutilizzabili o riciclabili entro il 2030.
Anche su questo tema c’è ancora molto lavoro da fare. Ogni anno i cittadini dell’Unione generano 26 milioni di tonnellate di rifiuti in plastica: il 39 per cento finisce nell’inceneritore, il 31 per cento in discarica e solo il 30 per cento viene raccolto per il riciclaggio. Una quota ancora molto bassa che, per giunta, varia sensibilmente di paese in paese: se la Lettonia riesce a riciclare oltre l’80 per cento degli imballaggi, la vicina Estonia non arriva nemmeno al 30 per cento, alla pari di Francia e Finlandia. Quando mancano le infrastrutture per il riciclo, l’unica soluzione è spedire i rifiuti all’estero: in Europa capita nel 50 per cento dei casi.
A ottobre 2020 è arrivata anche la strigliata da parte della Conte dei conti europea: dati alla mano, sostiene, è improbabile che l’Unione riesca a riciclare il 50 per cento degli imballaggi in plastica entro il 2025 e il 55 per cento entro il 2030, come prevede la strategia adottata dalla Commissione nel 2018. Tra i vari tipi di imballaggi, paradossalmente proprio quelli in plastica – come le bottiglie d’acqua o i vasetti di yogurt – hanno il tasso di riciclaggio più basso, a malapena superiore al 40 per cento.
Una così bassa percentuale di riciclo è un fallimento. Economico, perché il 95 per cento del valore dei materiali per gli imballaggi si volatilizza dopo il primo ciclo di utilizzo. E ambientale, perché produrre e incenerire la plastica emette enormi quantità di CO2 (si parla di circa 400 milioni di tonnellate all’anno, a livello globale). Le risorse del fondo Next Generation Eu, se indirizzate opportunamente dai singoli stati mediante i piani di ripresa e resilienza, secondo Evi potranno di sicuro essere utili.
“Bisogna evitare, però, di ricadere nella logica per cui ‘costruiamo gli impianti e tanto ricicliamo tutto’. Non funziona così”, precisa. “Insomma, il riciclo è l’ideale chiusura del cerchio, ma non può e non deve essere il pretesto per sottrarci alla nostra responsabilità di ridurre drasticamente la quantità di rifiuti che generiamo”.
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