Editoriale

Questo Pniec è il piano per la transizione energetica di cui avevamo bisogno?

L’1 luglio il governo ha consegnato il nuovo Piano nazionale integrato energia e clima. Purtroppo però non rappresenta la realtà che servirebbe all’Italia.

Abbiamo finalmente consegnato il nostro piano per la transizione energetica, ma non è esattamente il piano pragmatico e realistico di cui il governo fa sfoggio. Il suo invio alla Commissione europea era molto atteso, del resto ci è voluto un anno e mezzo di lavoro. Stiamo parlando del Piano nazionale integrato su energia e clima (Pniec) che rappresenta il principale strumento per pianificare la politica energetica italiana nella direzione delle emissioni nette zero, cioè della neutralità climatica.

Il Pniec contiene molte promesse ambiziose sulla nostra transizione energetica, ma non spiega come arrivarci, anche perché spesso queste strategie sono in contraddizione con le ultime scelte del governo, come la legge che limita di molto l’installazione di nuovo fotovoltaico, mentre inserisce come strategiche alcune tecnologie che possono rappresentare delle pericolose distrazioni, come i biocarburanti e la cattura della CO2, se usata per assorbire emissioni fossili superflue.

Cosa prevede il Pniec, in dettaglio

Si tratta di 491 pagine in cui il ministero dell’Ambiente e sicurezza energetica guidato da Gilberto Pichetto Fratin mette nero su bianco l’idea di transizione energetica dell’Italia: il grosso della produzione di energia pulita sarà affidata alle fonti rinnovabili, come sole e vento. In particolare l’obiettivo intermedio al 2030 è di raggiungere 131 gigawatt (GW) di potenza rinnovabile – con il fotovoltaico a 74 GW e 17 GW da eolico, principalmente a terra.

Ad oggi, da dati di Terna, il gestore della rete elettrica nazionale, la potenza rinnovabile in Italia è di circa 30 GW di fotovoltaico, poco più di 12 GW di eolico. A questi si aggiungono le rinnovabili più “classiche” come l’idroelettrico, quasi 22 GW, le bioenergie e la geotermia, con quasi 5 GW installati.

Tutto questo porterebbe quindi a un raddoppio. Si passerebbe dai circa 65 GW installati a poco più di 131 GW. Un obiettivo comunque inferiore rispetto agli obiettivi dello stesso governo che, con il decreto Aree Idonee che individua le zone in cui è possibile costruire impianti, ne prevede ben 16 GW in più.

La sfida è sicuramente ardua perché tutti gli scienziati insistono sull’importanza di elettrificare i consumi finali, sia per eliminare il più possibile le combustioni fossili che per migliorare l’efficienza energetica. Per l’Italia questa sfida significa passare dai circa 310 TWh di consumo elettrico annuo attuale a un approssimativo raddoppio della richiesta, ossia 700 TWh.

La grande novità è rappresentata dall’inserimento, per la prima volta, dell’energia nucleare da fissione, che secondo il Pniec darà un primo contributo alla decarbonizzazione dal 2035 in avanti. Addirittura viene inserita una piccola percentuale di produzione da fusione nucleare a ridosso del 2050.

In totale, la copertura proveniente da nucleare varierà da un minimo dell’undici per cento a un massimo del 22 per cento. Secondo il piano, l’inserimento del nucleare farà risparmiare fino a 17 miliardi di euro, anche se questi risparmi non vengono mai giustificati all’interno delle 491 pagine del documento.

Quali sono i problemi di questo piano?

Il primo tema da analizzare è quello dei tempi: il Pniec prevede una decarbonizzazione del sistema energetico entro il 2050, mentre i più affidabili istituti al mondo sul tema, come l’Agenzia internazionale dell’energia, organo dell’Ocse, chiede ai Paesi avanzati, come l’Italia, di decarbonizzare il sistema elettrico entro il 2040 per sperare di mantenere vivo l’obiettivo di limitare l’aumento della temperatura media attorno agli 1,5 gradi Celsius entro il 2100.

Questo significa che il piano italiano ha obiettivi troppo lontani nel tempo, già in partenza. E questo è solo il primo dei suoi problemi.

Un comunicato congiunto di Legambiente, Wwf Italia, Transport&Environment, Kyoto Club e Greenpeace Italia ha subito messo in evidenza “la mancanza di un target specifico di riduzione delle emissioni di CO2”. Le cinque associazioni aggiungono anche che l’inserimento del nucleare “rende questo Pniec, che si proponeva di essere più concreto e realistico, totalmente irrazionale”.

In effetti, il mondo occidentale negli ultimi anni non brilla per l’apertura di nuove centrali nucleari. I numeri sono abbastanza impietosi: gli unici nuovi impianti in costruzione sono in Francia, nel Regno Unito e negli Stati Uniti hanno ritardi monstre e costi spesso raddoppiati, mentre il nuovo impianto finlandese di Oukiluoto è entrato in funzione, ma con 14 anni di ritardi.

centrale nucleare
Le centrali nucleari in Italia hanno terminato la loro attività nel 1987 © Jeff Fusco/Getty Images

“L’operazione vera è mantenere lo status quo – prosegue il comunicato – perché qualsiasi apertura alle tecnologie nucleari fissili, che in realtà nulla hanno di nuovo, […] avrebbe comunque tempi ben più lunghi di quelli dettati dalla traiettoria della transizione”. E in effetti anche il nucleare a scala ridotta (Smr, small nuclear reactor) non sta ad oggi dando i frutti sperati: sia NuScale, il primo progetto statunitense di Smr, sia il progetto francese di Edf sono finora falliti prima di iniziare. Infatti si erano rivelate errate le iniziali stime di bassi costi per il nucleare Smr, con aumenti del +53 per cento nel caso statunitense.

L’Italia ha altri ulteriori problemi da affrontare

In aggiunta, a proposito del pragmatismo invocato dal ministro Pichetto Fratin, l’Italia deve ancora fare i conti con l’individuazione di un deposito di scorie nucleari di bassa e media intensità e che dal 2025 dovrebbero, in teoria, ospitare il ritorno delle scorie italiane ad alta intensità, eredità della nostra storia nucleare, in questo momento ospitate da Francia e Regno Unito, alla modica cifra di circa un miliardo di euro all’anno.

È almeno dal 2010 che avremmo dovuto individuare il sito idoneo e iniziato a progettare il deposito, ma le opposizioni locali, regionali e nazionali, assieme al lento processo di identificazione del luogo, hanno fermato ogni avanzamento.

Come ci si può illudere, come descritto nel Pniec, di avviare centrali nucleari a fissione nel giro di dieci anni quando non si è riusciti nemmeno a completare il passaggio precedente di decomissioning dei siti nucleari e di creazione del deposito permanente di scorie?

E mentre il governo stenta ad accelerare l’installazione delle rinnovabili, rimane alta la nostra dipendenza dall’estero: Al Gore, l’ex vicepresidente statunitense e da anni una delle voci più importanti sul clima, qualche giorno fa da Roma ha criticato aspramente il notro governo per la forte dipendenza dal gas e per l’evidente distanza tra le parole e i fatti. “L’Italia tra il 2020 e il 2022 ha dato 15 volte più soldi ai combustibili fossili che alle rinnovabili, soggiacendo al potere di quelle aziende”, così facendo espliciti riferimenti alla principale azienda fossile italiana.

Eppure la scienza ha ribadito più volte che non solo il fabbisogno di gas e combustibili fossili in Occidente è già in calo, ma che gran parte dei giacimenti che ora conosciamo non devono essere sfruttati.

Anche se questo Pniec non è stato rimandato indietro dall’Europa, come successo per la versione precedente, non rappresenta la forma di transizione strategica e basata su tecnologie affermate che servirebbe all’Italia. E soprattutto: se non viene posto in coordinamento con l’intera politica energetica e industriale del governo, si corre il rischio che rimangano solo 491 pagine di parole e buone intenzioni solo sulla carta. O in formato pdf, se evitiamo di stamparlo.

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