Poche emissioni, ma le conseguenze peggiori. Com’è andata la Cop26 per l’Africa
Conferenza Presidente Tanzania, Africa, Cop26 Glasgow
La Cop26 è stata un appuntamento vitale per l’Africa che contribuisce in misura minima ai cambiamenti climatici, ma ne sopporta le conseguenze peggiori.
Conferenza Presidente Tanzania, Africa, Cop26 Glasgow
Sabato 14 novembre è terminata a Glasgow, Scozia, la 26esima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.La Cop26 si è svolta nel momento in cui il mondo ha appena vissuto uno degli anni più caldi mai registrati nella sua storia. Infatti nel 2020 la terra ha raggiunto temperature di circa 1,02°C più calde della media. L’Africa porta il fardello più pesante degli effetti della crisi climatica, nonostante contribuisca per meno del 5 per cento alle emissioni mondiali di gas serra.
Il continente africano è infatti uno dei più vulnerabili agli effetti dei cambiamenti climatici in corso, anche a causa della sua bassa capacità di adattamento, dovuta alle limitazioni finanziarie e tecnologiche, e ad un’eccessiva dipendenza dall’agricoltura pluviale.
Le conseguenze di tutto ciò sono già realtà a sud del Sahara. L’attuale caso di insicurezza alimentare in Africa orientale, dovuto alla prolungata siccità, ne è un esempio calzante. Da nord a sud, da est a ovest, molti Paesi sub sahariani vivono dinamiche di instabilità politica, economica e sociale, in cui entra, aggravando la situazione, la questione clima.
Il mancato rispetto delle promesse di Parigi
L’Accordo di Parigi, siglato nel 2015, mirava sostanzialmente a limitare il riscaldamento globale ben al di sotto dei 2 gradi, preferibilmente a 1,5 gradi, rispetto ai livelli preindustriali. Nel quadro di questo patto mondiale sul clima, i Paesi sviluppati dovevano sostenere quelli in via di sviluppo nei loro sforzi di mitigazione e adattamento, perché in gran parte responsabili delle perdite e dei costi associati alla crisi climatica.
Al tempo, le nazioni sviluppate avevano promesso di raccogliere 100 miliardi di dollari all’anno per sostenere i paesi più vulnerabili. Tuttavia, i rapporti mostrano che questo impegno è mancato di almeno 20 miliardi di dollari dal 2018.
Questo è il contesto con cui le delegazioni delle nazioni africane si sono avvicinate alla Cop26, guardando soprattutto alle ricadute economiche e sociali di un mancato accordo al rialzo. “Il prodotto interno lordo del continente potrebbe ridursi fino al 30 per cento entro il 2050, se non si interviene con urgenza per adattarsi ai cambiamenti climatici”, le simboliche parole del Presidente del Kenya Uhuru Kenyatta a fine ottobre.
Così, stando a fonti del The Guardian, le delegazioni africane hanno approcciato la conferenza cercando di aprire delle discussioni su un mega accordo di finanziamento che canalizzerebbe circa 700 miliardi di dollari ogni anno dal 2025 per aiutare le nazioni in via di sviluppo ad adattarsi alla crisi climatica.
Nonostante le somme potrebbero sembrare enormi e scoraggianti, considerando il recente passato di mancato raggiungimento degli obiettivi, “quando c’è una volontà politica sufficiente, la comunità internazionale ha agito su vasta scala e rapidamente”, le parole e l’esperienza di Ellen Johnson Sirleaf, ex presidente della Liberia e premio Nobel 2011, sulle colonne del New York Times del 6 novembre. “Al culmine della micidiale epidemia di Ebola nell’Africa occidentale nell’ottobre 2014, ho scritto una lettera al mondo chiedendo più personale e risorse. La risposta, guidata dalle Nazioni Unite, dall’Organizzazione mondiale della sanità e dagli Stati Uniti, è stata rapida e generosa, per un totale di oltre 5 miliardi di dollari. Così, insieme, abbiamo sconfitto l’Ebola”, ha concluso il suo intervento l’ex Premier del Paese africano.
Cop26, il caso Gabon
A dettare la via e a presiedere i negoziatori africani nell’ormai conclusa Cop26, c’è una nazione che più di tutte le altre ha sviluppato un sistema ambientale efficace, il Gabon. Il Paese, che si affaccia sul Golfo di Guinea, è tra i pochi che ha già un’economia a emissioni zero. Infatti, le sue vaste foreste tropicali nel bacino del Congo assorbono più gas serra di quanti ne emettano le sue fabbriche, automobili e città. Recentemente ha poi approvato un’ambiziosa legge sul clima che mira a garantire la dipendenza del Paese dalle sue foreste e dall’agricoltura invece che dall’industria dei combustibili fossili. Ma per raggiungere questo obiettivo, ha bisogno di un sostegno esterno in modo che il governo possa continuare a migliorare gli standard di vita.
L'inscription par l'@UNESCO_fr du Parc national de l'#Ivindo sur la liste du patrimoine mondial de l'Humanité vient récompenser les efforts du #Gabon en matière de protection des forêts, dont le rôle est déterminant dans la lutte contre le réchauffement climatique. Un grand jour! pic.twitter.com/7wYlMTIWsV
Così il punto torna sulla questione economica-sociale. “C’è la necessità di investimenti sostenibili in queste foreste in modo che riescano a creare posti di lavoro e mezzi di sussistenza per il popolo del Gabon”, Lee White, attuale Ministro dell’ambiente del Gabon, sulle colonne di Al Jazeera, cerca di ricostruire l’importanza del filo che lega economia e ambiente. “La possibilità di utilizzare crediti di carbonio sul mercato, potrebbe potenzialmente finanziare grossi paesi, come la Repubblica Democratica del Congo, a spostare il loro percorso economico proteggendo sempre più vaste porzioni di territorio”.
I soldi servono subito, dicono i negoziatori. Secondo un recente studio della Commissione economica per l’Africa delle Nazioni Unite, il Cameron dedica quasi il 9 per cento del suo Pil all’adattamento climatico, l’Etiopia l’8 per cento, lo Zimbabwe il 9 per cento, mentre Sierra Leone, Senegal e Ghana superano il 7 per cento. Anche con queste elevate quote di finanziamento interno, lo studio ha rilevato un divario di circa l’80 per cento tra fabbisogno e spesa. Se le promesse avvenute nel quadro della Cop26 non verranno quindi mantenute, le ricadute per il continente potrebbero essere ancora più devastanti.
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