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Cos’è il premierato e cosa prevede la riforma costituzionale del governo Meloni
Il governo Meloni sostiene l’introduzione di una forma di premierato in Italia. Cosa significa, cosa comporterebbe e dove esistono sistemi simili.
- Il premierato è una forma di governo la cui definizione non è univoca.
- In Europa e nel mondo esistono alcune forme di premierato, ma la sola nazione ad aver sperimentato (e poi abbandonato) l’elezione diretta del capo di governo è Israele.
- L’idea è di rendere più stabile il governo, e di concedere al presidente del Consiglio maggiori poteri.
- In passato, erano state ipotizzate soluzioni simili anche in altri progetti di riforma costituzionale.
Aggiornato il 19 giugno 2024
il Senato ha approvato in prima lettura il disegno di legge sul premierato, ovvero sull’elezione diretta del presidente del Consiglio, che conferirà ai prossimi premier credenziali e poteri maggiori di quelli avuti finora.
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A novembre 2023 la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha promesso che condurrà l’Italia “verso la Terza Repubblica”. Se il passaggio dalla prima alla seconda, all’inizio degli anni Novanta, fu segnato dal crollo dei partiti che animarono la scena politica del paese dal Secondo dopoguerra, stavolta la “svolta” dovrebbe essere trainata da una riforma costituzionale il cui cuore è costituito dall’avvento del cosiddetto “premierato”. Ma cosa propone la riforma voluta dal governo (il cosiddetto Ddl Casellati, dal nome della ministra per le Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati)? Per quale ragione l’esecutivo la ritiene necessaria? Chi l’aveva proposta in precedenza? In quali paesi del mondo esistono architetture istituzionali simili? E soprattutto, cos’è il premierato?
La storica instabilità di governo in Italia
Partiamo da una constatazione storica. L’Italia è nota per aver attraversato decenni di instabilità politica. Governi brevi, alcuni brevissimi, altri di minoranza, monocolore, deboli sin dalla nascita sono stati una caratteristica della democrazia post-fascista. In 77 anni di storia repubblicana, si sono susseguiti ben 68 esecutivi.
Di fronte a tale situazione, tra il 1992 e il 1993 sorse un vivacissimo dibattito attorno alla legge elettorale. Fino a quel momento, infatti, il sistema si era basato sul cosiddetto “proporzionale puro”: i seggi in parlamento erano attribuiti in misura, appunto, proporzionale rispetto al quantitativo di voti ottenuti da ciascun partito. Di conseguenza, era necessario formare delle coalizioni post-elettorali, basandosi su contiguità politiche ma anche, evidentemente, sulla mera conta dei seggi.
Il vantaggio di tale sistema era quello di essere estremamente democratico, dal momento che le composizioni della Camera e del Senato riflettevano perfettamente la “fotografia politica” del paese. Lo svantaggio era legato, appunto, alla necessità di trovare punti di incontro programmatici all’indomani delle elezioni. Magari tra partiti che si erano presentati con proposte sensibilmente diverse tra loro. Così, il 18 e il 19 aprile del 1993 si tennero dei referendum abrogativi che consentirono poi di passare ad un sistema misto, ma prevalentemente maggioritario, nel quale il 75 per cento dei seggi era attribuito a turno unico in collegi uninominali. Il restante 25 per cento rimaneva invece proporzionale, ma con una soglia di sbarramento del 4 per cento alla Camera.
Premierato, i tentativi precedenti: la bicamerale del 1998 e il referendum del 2006
La crisi di governo del 1994, con il celebre “ribaltone” della Lega Nord di Bossi che fece cadere il primo esecutivo guidato da Silvio Berlusconi, nonché quella del 1998, con la revoca del sostegno del Partito della rifondazione comunista a Romano Prodi, portarono ad un primo tentativo di concedere maggiore forza al presidente del Consiglio.
Fu così istituita una Commissione bicamerale per le riforme costituzionali, presieduta dall’allora segretario del Partito democratico della sinistra Massimo D’Alema. In quella sede l’allora senatore Cesare Salvi propose una bozza che prese il suo nome, nella quale prevedeva proprio l’elezione diretta del “primo ministro” (che avrebbe sostituito il presidente del Consiglio, anche nella dicitura); veniva inoltre ipotizzata la concessione della fiducia unicamente dalla Camera (e non più dal Senato) e un meccanismo che legava la vita dell’esecutivo a quella della stessa camera bassa del parlamento. Ciò significa che in caso di sfiducia votata al governo, sarebbe scattato automaticamente anche lo scioglimento della Camera. Nella “bozza Salvi” si ipotizzava infine la nomina e revoca dei ministri direttamente dal capo del governo. Il progetto però venne accantonato.
Successivamente, nel 2006, fu avanzato un altro progetto di riforma costituzionale, finalizzato anche in questo caso ad ampliare i poteri del capo del governo, che sarebbe stato eletto direttamente dal popolo. Il progetto non prevedeva alcuno scioglimento automatico in caso di mozione di sfiducia approvata; introduceva però l’ipotesi di una sfiducia costruttiva sul modello tedesco (a condizione che il nuovo premier fosse stato eletto dalla stessa maggioranza del precedente). Anche in questo caso la riforma però naufragò, poiché al referendum costituzionale (confermativo) del 25 e 26 giugno di quell’anno vinsero i “no”.
Dunque, la speranza della tornata referendaria del 1993, ma anche dei tentativi di introduzione di un sistema di premierato (o simil-premierato) successivi, era appunto quella di poter garantire maggiore stabilità di governo al paese. Anche negli anni successivi al 1993, tuttavia, quando in vigore c’era la legge elettorale firmata dall’attuale presidente della Repubblica Sergio Mattarella, le crisi di governo non sono mancate. Nella sola legislatura 1996-2001 si sono succeduti i governi Prodi, D’Alema I, D’Alema II e Amato II.
La riforma costituzionale (ddl Casellati) in 6 punti
Successivamente, sono state approvate altre leggi elettorali, fino a quella attuale: il cosiddetto Rosatellum bis. Ma l’instabilità ha continuato a rappresentare una caratteristica della politica italiana, se si considera che abbiamo avuto dodici governi negli ultimi vent’anni. Si tratta di una delle ragioni per le quali la presidente del Consiglio Giorgia Meloni punta, come detto, al premierato con il Ddl Casellati. Una riforma costituzionale che prevede, allo stato attuale, sei punti fondamentali.
1 L’elezione diretta del premier
La modifica della Carta presentata in parlamento consta di cinque articoli, attraverso i quali si riscriverebbero tre articoli: l’88, il 92 e il 94. Il punto principale è quello che porterebbe a superare la condizione di presidente del Consiglio dei ministri come primus inter pares. Ovvero guida del governo senza tuttavia essere un gradino al di sopra di chi compone l’esecutivo stesso. Con la riforma, il presidente verrebbe eletto a suffragio universale diretto, in un solo turno. Tale elezione avverrebbe congiuntamente a quella delle due Camere. E il premier sarebbe necessariamente un parlamentare.
2 Il mandato quinquennale
Il capo del governo così eletto rimarrebbe in carica per una durata fissa di cinque anni, al pari delle Camere. Ciò proprio con l’intento di garantire stabilità. Ciascun capo di governo non può però rimanere in carica per più di due mandati, e può “sforare” sulla terza soltanto se la seconda si dovesse concludere in anticipo.
3 La gestione delle crisi di governo
Anche con una simile architettura, tuttavia, non è escluso che possano verificarsi delle crisi di governo. Cosa fare, perciò, nel caso in cui l’esecutivo dovesse perdere la fiducia del parlamento? Inizialmente la riforma aveva ipotizzato la possibilità di un nuovo incarico da parte del presidente della Repubblica in vista della formazione di un nuovo esecutivo. E, in alternativa, di una sostituzione con un altro parlamentare, a condizione che quest’ultimo provenga dalla stessa maggioranza e si impegni a continuare a governare sulla base del medesimo programma.
Soltanto nel caso in cui anche il sostituto del premier eletto fosse sfiduciato, verrebbero sciolte le Camere e si andrebbe nuovamente alle urne. Anche perché l’imposizione di un capo di governo parlamentare impedirebbe, di fatto, la soluzione di esecutivi “tecnici”, come nel caso dei governi Ciampi del 1993, Dini del 1995-1996, Monti del 2011-2013 e Draghi del 2021-2022.
Dopo il primo passaggio in commissione Affari costituzionali si parla di revoca del mandato al premier eletto solo in casi eccezionali: morte, impedimento grave, dimissioni e decadenza. Inoltre, se il presidente del Consiglio fosse sfiduciato, avrebbe una settimana per tentare di ottenere nuovamente la fiducia. Senza la quale potrebbe soltanto dimettersi (oppure proporre di scogliere le Camere).
4 Il premio di maggioranza
Un’altra consistente novità è quella che prevederebbe l’attribuzione di un premio di maggioranza alla coalizione che ha sostenuto il premier uscito vincitore dallo scrutinio. Ai partiti che la compongono inizialmente si è pensato di attribuire il 55 per cento dei seggi: ciò al fine di assicurare la tenuta del sostegno parlamentare. Dopo il primo vaglio in commissione Affari costituzionali al Senato, si è optato però per una formulazione più generica: un “premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi”. Sarà in ogni caso compito del parlamento costruire una nuova legge elettorale che preveda, appunto, il premio di maggioranza e che “discenda” dall’eventuale nuovo dettato costituzionale.
5 La fine dei senatori a vita di nomina presidenziale
Di importanza minore ai fini degli assetti istituzionali, infine, l’abolizione della figura del senatore a vita. Attualmente, la Costituzione prevede che il presidente della Repubblica possa nominarne “fino ad un massimo di cinque”, tra cittadini che hanno “illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterari”. Con la riforma, dovrebbero diventare senatori a vita soltanto gli ex capi di stato.
6 Il nuovo “semestre bianco”
L’attuale testo costituzionale prevede che, negli ultimi sei mesi del suo mandato settennale, il presidente della Repubblica non possa sciogliere le Camere. Ciò per evitare l’eventualità che, qualora lo stesso capo di stato puntasse alla propria rielezione, ma dovesse constatare una composizione del parlamento poco incline a conferirgli un nuovo mandato, puntasse a nuove elezioni al solo scopo di ottenere una maggioranza a lui più favorevole.
Ciò verrebbe superato dal nuovo testo, poiché qualora il premier dovesse proporre lo scioglimento delle Camere proprio nell’ultimo semestre del settennato presidenziale, si troverebbe di fatto impossibilitato a farlo.
Cosa serve affinché la riforma venga approvata
Nello scorso mese di novembre il testo è stato approvato dal Consiglio dei ministri. Successivamente, è stato calendarizzato lavori delle commissioni parlamentari. Secondo l’articolo 138 della Costituzione, però, ogni riforma deve essere approvata da entrambi i rami del parlamento in doppia lettura, a distanza di almeno tre mesi l’una dall’altra. E ciò a maggioranza assoluta dei componenti delle due Camere.
Le riforme possono inoltre essere sottoposte a referendum popolare “confermativo” se, entro tre mesi dalla loro pubblicazione, ne facciano richiesta un un quinto dei membri di una Camera, o cinquecentomila elettori, o cinque Consigli regionali. Occorrerebbe perciò a quel punto che venga approvata dalla maggioranza degli elettori che si recheranno alle urne (il cosiddetto quorum funzionale) anche se l’affluenza alle urne non dovrebbe essere il 50 per cento più uno degli aventi diritto (il cosiddetto quorum strutturale).
Solamente qualora i due rami del parlamento dovessero approvare la riforma con una maggioranza di almeno i due terzi, il referendum confermativo sarebbe escluso. Le voci contrarie alla novità, però, non mancano. A partire da quella della senatrice Liliana Segre, che giudica la proposta “allarmante”. Sia dal punto di vista del metodo, poiché a suo avviso su materie costituzionali “occorrono non prove di forza o sperimentazioni temerarie, ma generosità, lungimiranza, grande cultura costituzionale e rispetto scrupoloso del principio di precauzione. Non tutto può essere sacrificato in nome dello slogan ‘scegliete voi il capo del governo!’. Anche le tribù della preistoria avevano un capo, ma solo le democrazie costituzionali hanno separazione dei poteri, controlli e bilanciamenti, cioè gli argini per evitare di ricadere in quelle autocrazie contro le quali tutte le Costituzioni sono nate”.
Nel merito, poi, Segre individua due rischi. Il primo Il primo è “una stabilità fittizia“; il secondo “è il rischio di produrre un’abnorme lesione della rappresentatività del Parlamento, ove si pretenda di creare a qualunque costo una maggioranza al servizio del Presidente eletto, attraverso artifici maggioritari tali da stravolgere al di là di ogni ragionevolezza le libere scelte del corpo elettorale. La proposta governativa è tale da non scongiurare il primo rischio e da esporci con altissima probabilità al secondo”. Ciò soprattutto in ragione del fatto che si vorrebbe imporre nella Carta una legge elettorale che garantisca sempre e comunque un premio di maggioranza, senza soglie minime al di sotto delle quali esso non sia assegnato.
A ciò si aggiunge poi il fatto che le prerogative del presidente della Repubblica verrebbero fortemente intaccate. E, inoltre, la prospettiva per la quale la stessa maggioranza potrebbe facilmente eleggere (anche grazie al premio) un capo di stato a lei gradito. “Ciò significa che il partito o la coalizione vincente sarebbe in grado di conquistare in un unico appuntamento elettorale il presidente del Consiglio e il governo, la maggioranza assoluta dei senatori e dei deputati, il presidente della Repubblica e, di conseguenza, anche il controllo della Corte Costituzionale e degli altri organismi di garanzia”.
Una definizione del premierato e chi lo ha adottato in Europa
Ma cosa cambierebbe, concretamente, se la riforma fosse approvata e in Italia venisse introdotto il premierato? Quest’ultimo rappresenta una forma di governo parlamentare la cui definizione, in realtà, non è così semplice. Tipicamente, vengono considerate caratteristiche del premierato non solo l’elezione diretta del capo del governo da parte del corpo elettorale ma anche la preminenza del ruolo del premier rispetto agli altri ministri. La prima delle due caratteristiche è quella che normalmente definisce il cosiddetto governo neoparlamentare Che si differenzia, in questo senso, dal cancellierato di stampo tedesco.
Il premierato britannico
Notoriamente, nel Regno Unito vige un sistema basato sul premierato: il cosiddetto sistema Westminster. Va detto, però, che neppure in terra britannica il premier viene viene eletto direttamente dal popolo (come, per intenderci, accade con i sindaci in Italia). La regola inglese è che ad assumere il ruolo di capo del governo sia il leader del partito vincitore: gli elettori, di conseguenza, sanno che votando ad esempio per il Labour party, in caso di vittoria di quest’ultimo, sarà il capo di tale partito a governare.
Tuttavia, nel modello Westminster il premier può essere sostituito senza necessariamente tornare alle urne, ad esempio nel caso in cui i deputati del suo partito eleggono un nuovo leader (mostrandogli così, di fatto, il mancato gradimento per il suo operato). È accaduto due volte nella storia recente della nazione europea: nel 1990 quando John Major sostituì al governo Margaret Thatcher; nel 2007 quando Gordon Brown prese il posto di Tony Blair.
Il premier inglese gode di notevoli prerogative: può sciogliere la Camera dei Comuni e può nominare e revocare i propri ministri. Ciò nonostante, il sistema britannico non ha impedito che, in alcune occasioni, sia stato necessario creare delle coalizioni di partiti post elettorali: nonostante un sistema fortemente maggioritario, infatti, è accaduto che il partito uscito vincitore dalle urne non avesse a disposizione una maggioranza autonoma.
Il cancellierato tedesco
Anche in Germania si può considerare che esista una forma di premierato, benché anche in questo caso il cancelliere (capo di governo) non venga eletto direttamente dal popolo (benché gli elettori sappiano in anticipo chi siano i candidati dei vari schieramenti). A rendere il cancelliere un premier, è il fatto che i suoi poteri sono particolarmente importanti: tanto che solo lui riceve la fiducia del parlamento.
È il Bundestag (la Camera bassa) ad eleggere il cancelliere federale, con un voto a scrutinio segreto e privo di dibattito. A quel punto, il nuovo capo di governo è formalmente nominato dal Presidente federale, presta giuramento e ha quindi facoltà di proporre i propri ministri.
A garantire stabilità al sistema tedesco, poi, c’è il meccanismo della cosiddetta sfiducia costruttiva: il Bundestag può sfiduciare il cancelliere soltanto se ha pronta un’alternativa, ovvero eleggendo un successore. Il che però è accaduto soltanto una volta nella storia della Germania dal 1949 ad oggi: nel 1982 quando il cancelliere Helmut Schmidt dovette cedere il posto a Helmut Kohl.
Il modello americano: un organismo monocefalo
Non ascrivibile al modello del premierato, ma degno di nota, è il sistema americano. Come noto, infatti, ogni quattro anni gli elettori statunitensi votano un presidente. Ovvero un capo di Stato. Caratteristica peculiare del sistema istituzionale americano, però, è il fatto che la figura del presidente è quella del capo del governo coincidono. Di conseguenza, gli elettori sanno che non leggeranno unicamente il loro capo di Stato ma anche colui che guiderà l’amministrazione.
Tuttavia, non si tratta di un’elezione diretta neppure in questo caso, al contrario di quanto si potrebbe immaginare. I cittadini eleggono infatti i cosiddetti “grandi elettori”, demandando a loro l’elezione materiale del presidente. E teoricamente questi possono anche non rispettare il mandato loro dato, cambiando idea e votando un altro candidato.
Israele: l’unico paese ad aver adottato (per qualche anno) un premierato “puro”
L’unico caso al mondo di premierato “compiuto” – ovvero sia con un’elezione popolare diretta del capo del governo, sia con una preminenza di quest’ultimo nell’esecutivo – è relativo allo stato di Israele. Nel 1992, infatti, la Knesset adottò una nuova legge elettorale, che imponeva appunto l’espressione diretta della preferenza per il premier da parte del corpo elettorale.
Anche nella nazione ebraica, la volontà era quella di tentare di garantire stabilità di governo ed evitare che la frammentazione politica consentisse a piccoli partiti di bloccarne l’azione. Tuttavia, il sistema ha “retto” soltanto per tre tornate elettorali: nel 1996, nel 1999 e nel 2001. Una volta constatato che però i piccoli partiti non avevano perso voti, si decide di tornare la sistema precedente.
Vent’anni dopo, però, nel 2021, l’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu ha rilanciato con forza l’elezione diretta. E ha chiesto di adottare una versione ancor più “estrema” del modello, con un ingresso automatico del governo nell’esercizio delle proprie funzioni. Aggirando così il voto di fiducia da parte della Knesset (previsto però dalla Legge fondamentale, ovvero quel corpus normativo che assurge di fatto a titolo di Costituzione).
In conclusione, il premierato “puro” con elezione diretta da parte del corpo elettorale del capo di governo di uno stato non esiste in alcuna nazione al mondo. Qualora la riforma proposta dal governo Meloni fosse approvata, l’Italia rappresenterebbe un unicum nel panorama internazionale.
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