Tutti i presìdi Slow Food del 2024: storie di biodiversità e cultura

Dal mischiglio della Basilicata alla zucca malon del Friuli al cappero di Selargius, in Sardegna: i presìdi Slow Food che valorizzano prodotti dimenticati, ma di fondamentale valore per la biodiversità, il territorio e le comunità.

  • Nel 2024, alla lista dei presìdi Slow Food italiani, si sono aggiunte 13 novità.
  • Si tratta di prodotti agricoli, farine, dolci e pratiche di pesca sostenibili da nord a sud della penisola.
  • Sono storie di tutela della biodiversità, di salvaguardia di territori fragili e di filiere corte che fanno rinascere le comunità.

Quello dei presìdi Slow Food è un progetto che punta a tutelare la biodiversità, salvando dall’estinzione varietà di frutta e verdura, pani e dolci tipici, razze autoctone, attività di pesca tradizionali. Così facendo si ripopolano aree rurali, ci si prende cura dell’ambiente, si tramandano mestieri e tecniche antiche di lavorazione. Un presidio rappresenta una comunità di produttori che si ispira alla filosofia Slow Food, un prodotto tradizionale, un territorio, un patrimonio di cultura e saperi. Per ogni presidio, Slow Food si impegna a raccontare storie, supervisionare i disciplinari di produzione, organizzare momenti di formazione, promuovere i prodotti all’interno di eventi internazionali, mettere in contatto i produttori con cuochi e realtà interessate ai prodotti. Sono circa 600 i presìdi in 70 paesi del mondo, con una lista in continuo aggiornamento. Ecco i nuovi presìdi Slow Food del 2024 in Italia.

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I pruna di frati © Slow Food

I presìdi Slow Food del 2024

“I pruna di frati” di Terrano

“I pruna di frati” sono prugni che devono il nome ai monaci benedettini celestini del convento di Terranova Sappo Minulio (Rc) che nel ‘500 selezionarono questo ecotipo e ne svilupparono la coltivazione. Molte famiglie della zona possiedono una pianta nei loro terreni, mentre sono sei i produttori del presidio che coltivano in tutto sette ettari, terreni terrazzati, a quote che vanno dai 300 ai 400 metri, aree che oggi soffrono lo spopolamento. La pianta è rustica, ben adattata ai terreni argillosi e non richiede particolari trattamenti. I frutti maturano a fine luglio e si consumano freschi o si fanno essiccare. Verde-giallastri, virano verso il rosso-violetto a piena maturazione, hanno buccia sottile e forma allungata e sono coperti da un consistente strato di pruina che li protegge dagli agenti patogeni. Dolci ma non stucchevoli e con una bella acidità, la loro particolarità è la facilità con cui il seme si separa dalla polpa.

Piparelle di Villa San Giovanni

Mandorle siciliane o pugliesi, zucchero, miele reggino, farina di frumento italiana e spezie come cannella, chiodi di garofano e olio essenziale di arancio: questi sono gli ingredienti delle vere piparelle di Villa san Giovanni (Rc), biscotti secchi con una storia lunga più di un secolo, il cui presidio è nato per difendere il prodotto dalle imitazioni della classica ricetta. Le piparelle di Villa San Giovanni si distinguono dalle siciliane perché sono più sottili, per l’abbondanza di mandorle nell’impasto e per l’uso più parsimonioso delle spezie. Dopo una prima infornata, l’impasto riposa un giorno e viene tagliato in fette di pochi millimetri che vengono infornate di nuovo per 12 ore.

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Le piparelle di Villa San Giovanni © Slow Food

Pesca tradizionale del lago Trasimeno 

Una pesca di attesa, passiva, non aggressiva, con reti e barche tradizionali: è la pesca sul lago Trasimeno, in Umbria, quarto lago più esteso d’Italia, che soffre spesso la scarsità d’acqua, ma non quella di pesci. Persico reale, carpa, pesce gatto, latterino, tinca, persico-trota, anguilla e capitone vengono pescati in modo imprevedibile, con il rischio di tornare con le reti vuote, uno svantaggio economico che però significa tutela delle riserve ittiche. I pescatori professionisti attivi sul lago Trasimeno oggi sono una cinquantina, la maggior parte dei quali aderiscono a due cooperative. Molti anche i giovani che si sono avvicinati alla pesca dando una nuova spinta alla salvaguardia dell’ecosistema e alla riscoperta della cucina di pesce di lago.

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La pesca tradizionale sul lago Trasimeno © Oliver Migliore

Mischiglio della Basilicata

Il mischiglio è un mix di farine di cereali e farine di legumi, unite in proporzioni variabili, nato dai contadini della valle del Serrapotamo, in provincia di Potenza, ai piedi del Parco nazionale del Pollino, per rimediare alla scarsità di grano. Seppur frutto di necessità, il mischiglio è tutt’altro che una farina povera: in realtà è molto energetica. Nella zona di produzione del presidio, ogni paese fa il mischiglio a modo proprio: se a Teana e a Fardella è composto per metà da grano Carosella e per metà da farina di fave, a Chiaromonte e Calvera si usa un terzo di grano duro Senatore Cappelli, un terzo di grano tenero Carosella e un terzo di legumi, orzo e, quando necessario, avena. Ciò che accomuna tutti è la ricetta della tradizione: i rascatielli, una pasta fatta con il mischiglio che viene condita con una salsa di pomodoro, aglio e basilico, detta scind scind. Quasi una zuppa, a cui talvolta si aggiunge del peperone crusco, che può anche essere mangiata con il cucchiaio o con il pane. Al presidio Slow Food del mischiglio aderiscono cinque coltivatori, due mulini che trasformano la farina e tre pastifici, realizzando una filiera corta e completa.

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Il mischiglio della Basilicata © Slow Food

Oliva Bianchera di Trieste e del Carso

L’oliva Bianchera di Trieste e del Carso è una cultivar originaria della zona di San Dorligo della Valle e di Muggia, in Friuli Venezia Giulia, una pianta rustica e vigorosa, adattata al clima rigido e ai terreni calcarei e maroso-arenaici. L’adattamento naturale a una zona sferzata dal vento di bora, caratterizzata da una forte escursione termica e da inverni freddi, ha fatto sì che la pianta sviluppasse polifenoli per proteggersi e sostenersi, sostanze che rendono l’olio interessante dal punto di vista organolettico e nutritivo. Il peduncolo delle olive è così robusto che la raccolta, fatta a mano, richiede una certa forza; il gusto dell’olio restituisce in bocca una sensazione piccante e amara importante.

Malon delle valli del Natisone

Il malon è una zucca a pasta bianca dalla forma cilindrica-tondeggiante e la buccia liscia, che cresce nelle valli del Natisone, 50 km a nord di Trieste. Durante la sua lunga storia contadina era di uso comune, poi lo spopolamento e il depauperamento del tessuto sociale della zona hanno fatto sì che la coltivazione andasse perdendosi. Il presidio Slow Food vuole ridare dignità a qualcosa che stava scomparendo, non come puro e semplice ricordo dei bei tempi andati, ma per le potenzialità economiche, benché piccole, ad esempio nella filiera della ristorazione. Le ricette della tradizione vedono il malon utilizzato in una minestra chiamata briza o zupa malonova, nella quale la polpa viene grattugiata e messa a macerare nella batuda (cioè il latticello) con l’aggiunta di fagioli e, a seconda delle varianti, patate e farina di mais abbrustolita nello strutto o nel burro. Lo si può trovare anche grattugiato e stufato in un tegame con aglio, alloro e una base grassa, per accompagnare la carne, oppure come ingrediente dello stakanje, un pestato a base di verdure e patate.

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Il malon delle valli del Natisone © Fulvio E. Bullo

Cipolla dell’acqua di Santarcangelo di Romagna

La chiamano zvòla da aqua, perché in passato veniva coltivata nei terreni attraversati da canali e fossi d’acqua: la cipolla dell’acqua di Santarcangelo di Romagna (Rn) è caratterizzata dalla pezzatura importante, che può arrivare anche al chilo di peso, da colore bianco e buccia dorata e dalla particolare dolcezza. Sono quattro i produttori che aderiscono al presidio e che hanno recuperato una coltivazione fiorente nella prima metà del ‘500 e poi abbandonata anche a causa della trasformazione urbanistica del territorio che ha modificato i fossi. In cucina, la cipolla dell’acqua si presta a diversi utilizzi: oltre a venire consumata cruda, un tempo veniva cotta sulla stufa a legna oppure avvolta nella stagnola e messa nella brace. Oggi la si ritrova in molte preparazioni, a cominciare dalla piadina per arrivare fino ad alcune pietanze dolci.

Ciliegia Somma dei Monti Lattari 

Grande, soda e succosa, la ciliegia Somma è legata in maniera particolare al territorio in cui cresce. Siamo nelle aree agricole di Gragnano e Pimonte, in provincia di Napoli, sulle colline a ridosso dei Monti Lattari, dove già all’inizio del 1600 alcuni documenti storici attestano la coltivazione di ciliegie favorita dal fertile terreno d’origine vulcanica e dall’esposizione mite e ventilata. La ciliegia dei Monti Lattari ha rischiato di scomparire negli anni ‘80 del secolo scorso, quando le varietà migliorate di ciliegie provenienti dalla Turchia hanno soppiantato le produzioni locali, ridotte anche a causa dello spopolamento delle aree interne. Oggi, invece, si punta a promuovere a livello turistico queste zone, mettendo in rete produttori, ristoratori e pasticcieri. Unica e inconfondibile quanto la ciliegia, è anche la tradizione di “insaccare” i frutti, cioè di disporre le ciliegie a piramide per mantenerle più a lungo.

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La ciliegia Somma dei Monti Lattari © Paola Viesi

Pesca artigianale dell’Isola del Giglio

Combattere il sovra sfruttamento della risorsa ittica, rivitalizzare un’area preziosa e fragile, promuovere la cultura alimentare attraverso l’impegno di persone che – prima ancora di pescatori – sono appassionati di pesca: il presidio della pesca artigianale dell’Isola del Giglio nasce da questi presupposti, con sette pescatori che non si arrendono alla logica del profitto. Contro l’utilizzo di prodotti globali che non hanno legami con il territorio e contro chi pesca senza essere del posto, ma solo sfruttando tutto quello che finisce in rete, il disciplinare adottato dai pescatori del presidio norma chiaramente i tempi e i modi per le catture: no allo strascico e alle reti a circuizione, sì ai palangari e alle reti da posta fissa con dimensioni delle maglie diverse a seconda della stagione e del ciclo biologico della specie che si vuole pescare, per evitare di catturare esemplari troppo giovani e mettere in crisi gli stock ittici. Una scelta che non è soltanto dettata dall’etica, ma dalla consapevolezza che il mare rappresenta una fonte di sostentamento e come tale va rispettato affinché dia sempre da pescare e da mangiare.

Pesca tradizionale dello stretto di Messina

Il presidio Slow Food della pesca tradizionale dello stretto di Messina sostiene e valorizza il lavoro dei pescatori locali delle coste tra Sicilia e Calabria. È un tipo di pesca selettiva e stagionale che dà giusto valore alla grande varietà di specie che si catturano tutto l’anno, variando tecniche e strumenti, una pesca basata sulla profonda conoscenza e sul rispetto del mare fatta con la feluca, imbarcazione per la pesca del pesce spada, tremaglio e nasse, tutelando la biodiversità condivisa tra Sicilia e Calabria, tra Ionio e Tirreno.

Prosciutto di Marsicovetere

Il prosciutto di Marsicovetere, in Basilicata, è un prosciutto crudo, dal sapore dolce e delicato, ricavato dalle cosce dei suini allevati all’aperto localmente nei boschi di collina che puntellano la Lucania. Con l’abbandono progressivo del paese di Marsicovetere, a mille metri di altitudine, anche la tradizionale attività della stagionatura dei prosciutti, fatta nelle case grazie alle condizioni climatiche ideali, caratterizzate dai venti freschi del monte Sirino e da quelli caldi provenienti dal golfo di Policastro, è andata quasi scomparendo. Ora, all’unico produttore rimasto, grazie al lavoro della Condotta Slow Food Val d’Agri, se n’è aggiunto un secondo: l’obiettivo, generare micro filiere che diano opportunità di sviluppo imprenditoriale e sostenibile, specialmente per i giovani.

Presidio Slow Food dei prati stabili e dei pascoli

Il presidio Slow Food dei prati stabili e dei pascoli conta attualmente trenta produttori coinvolti: da nord a sud Italia producono formaggi con il latte di animali alimentati a fieno ed erba di prati e pascoli ricchi di essenze. È un progetto importante per la rinascita delle terre alte, la rigenerazione della pianura, la conservazione della biodiversità e la promozione di un allevamento amico del clima, della terra, degli animali e della salute. “Potrebbe sembrare strano, ma un prato ricco di biodiversità ha molto a che fare con il nostro cibo, con la sua bontà e la sua salubrità. Non solo: ha a che fare con la cura dell’ambiente e con la nostra sicurezza, perché i pascoli sono un argine per frane, slavine e incendi estivi”, ha spiegato Serena Milano, direttrice di Slow Food Italia, che ha poi aggiunto: “Il prato è un’oasi di biodiversità vegetale e animale, un elemento di bellezza per il paesaggio. Proteggere questo ecosistema vuole anche dire fare qualcosa di giusto, perché consente agli erbivori di mangiare fieno ed erba fresca, nel rispetto del loro benessere”. “I prati stabili sono anche una risposta alla crisi climatica — ha ricordato Francesco Sottile, docente dell’Università di Palermo e membro del board di Slow Food Internazionale — perché rappresentano uno straordinario serbatoio di carbonio, proprio come i boschi e le foreste”. 

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La pianta del cappero di Selargius © Slow Food

Cappero di Selargius 

Selargius, alle porte di Cagliari, è l’ottava città più popolosa della Sardegna. Oggi ha quasi trentamila abitanti, cinquant’anni fa erano meno della metà. Qui, due produttori coltivano una varietà di cappero autoctona, sfidando l’avanzata del cemento. Molto diffusa e utilizzata in passato e coltivata spesso insieme alla vite e all’olivo, la pianta del cappero di Selargius ha un’insolita forma ad alberello, i frutti sono piccoli e “vuoti”, caratteristica che ne rende più immediato l’utilizzo in cucina: il risciacquo dal sale utilizzato per la conservazione è rapido, non serve un lungo ammollo e i capperi ne guadagnano in sapore.

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