Il concerto milanese per Gaza, un successo di pubblico e raccolta fondi, è stata la presa di posizione più forte contro il genocidio della scena musicale italiana.
Visto da noi: Prince
Otto anni fa, quando suonò in Italia per l’ultima volta, si esibì in una performance molto jazzy e composta, tanto da far pensare che questo signore oramai di mezza età (52 compiuti a giugno) avesse definitivamente sotterrato i pizzi e i perizoma ghepardati nell’oltretomba, anche alla luce della sua conversione ai Testimoni di Geova che
Otto anni fa, quando suonò in Italia per l’ultima volta, si
esibì in una performance molto jazzy e composta, tanto da
far pensare che questo signore oramai di mezza età (52
compiuti a giugno) avesse definitivamente sotterrato i pizzi e i
perizoma ghepardati nell’oltretomba, anche alla luce della sua
conversione ai Testimoni di Geova che imponeva un certo decoro. Ma
Prince non è mai univoco. Vive sempre diverse esistenze in
una sola, e quello che appare è sempre soltanto un magico
gioco di specchi.
Dunque entra la band a luci accese (senza Sheila E. e con tre
ottime coriste la cui stazza fa dimenticare le ninfe discinte del
passato, e tra cui si distingue la possente Shelby J.) e attacca
con una jam session, tanto che quando un omuncolo vestito di nero
appare sul palco cantando Stratus (di Billy Cobham), Mountains,
Shake Your Body (dei Jacksons) e I Want To Take You Higher (di Sly
& The Family Stone) tutti sono lì a chiedersi: ma
è lui o non e lui? Poi le luci si spengono, per
reilluminarsi trionfali con Let’s Go Crazy e Delirious.
Il Principe (l’unico, vero, inarrivabile) è tornato. Il
corpo sempre esile come una corda tirata verso un universo di suoni
altri, che all’improvviso sa farsi carne emanando aure sensuali. Le
mosse sempre esplicite a mimare l’innominabile dietro alla parvente
raffinatezza. La chitarra elettrica sempre tenuta a mo’ di
paravento che urla idiomi marziani, e la voce sovrana che vitupera,
accarezza, uccide e fa l’amore, e che esce da quella minuscola
figura non si sa bene come. Inizia un medley di vecchi successi
tutto giocato in chiave funk, dove brani che hanno fatto
avanguardia come 1999, Little Red Corvette e Controversy si fondono
fino a sfociare in Angel (di Sarah McLachlan) e nella sempre
stupefacente Nothing Compares 2 U.
Poi di nuovo l’atmosfera si scalda bollente e madida con le
caleidoscopiche Uptown, Raspberry Beret, Cream, fino a esplodere in
U Got The Look e nella imperiale Purple Rain, accompagnata da una
pioggia purpurea che tra il pubblico diventa lacrime. Fine primo
atto. Sua maestà ritorna in scena con le febbricitanti Kiss
e If I Was Your Grilfriend, e sull’altare avviene ancora una volta
la trasformazione alchemica (di genere, di colore, stilistica) di
cui Prince è il sacerdote assoluto. Bianco e nero, maschio e
femmina, rock e funk. Roger Nelson trascende ogni opposto
nell’unità eccelsa che è dei geni.
E quando torna per il terzo atto nel climax di Jungle Love e A Love
Bizarre, il rituale si compie trasformando la carne in un vagito
universale. Pare la trasmutazione del Cristo, corpo e spirito, e
forse non è un caso che questo piccolo alieno sia diventato
così religioso, come se la sola materia non potesse bastare
a contenere e spiegare un talento sceso da chissà dove. Sono
passate quasi 3 ore, le luci si spengono e la gente sfolla.
Dall’esterno si sente suonare Take Me With You e correndo dentro si
vede Roger divertirsi con la chitarra elettrica, come un essere
umano qualsiasi, o quasi. Perché se esiste una differenza
tra oggi e ieri nell’attitudine di questo artista, questa giace
nella sottile linea di confine che divide i superuomini dagli
uomini.
Prince è sceso dal trono, si espone (invita la gente del
pubblico sul palco a ballare con lui), si lascia abbracciare e
abbraccia a sua volta, come se la mistica del Caligola si fosse
intinta di universalismo cristiano. Essere principi è una
responsabilità troppo grande per gli umani, costringe alla
solitudine e al delirio, e anche gli onnipotenti hanno bisogno di
comunanza. Così Mr. Nelson scende dall’eremo e trasla quel
verbo irraggiungibile in ciò che la musica dovrebbe sempre
significare: catarsi e comunione.
Barbara Volpi
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