Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Abbiamo un problema con le sneakers: ce ne sono troppe
Per fare un paio di sneakers occorrono 65 componenti e 360 fasi di lavorazione, nel mondo ogni anno ne vengono prodotti 24 miliardi di paia.
- Il mercato globale delle sneakers è destinato a raggiungere i 95 miliardi di dollari entro il 2025.
- Ogni anno vengono prodotte in media 25 miliardi di paia di scarpe e quasi ognuna di queste richiede l’assemblamento di 65 parti attraverso 360 fasi di lavorazione. Non è difficile immaginare l’enorme impatto ambientale di questo settore.
- La ricerca e sviluppo in termini di materiali bio-based ha fatto notevoli passi avanti, ma un’alternativa ancora più valida è allungare la vita delle scarpe che sono già state prodotte.
Se l’industria delle sneakers fosse una nazione, sarebbe la diciassettesima più inquinante al mondo. Negli ultimi cinque anni questo settore è cresciuto in modo esponenziale e le attuali proiezioni prevedono che il mercato globale delle scarpe da tennis supererà i 95 miliardi di dollari entro il 2025, quasi il doppio rispetto alla valutazione del 2016, che era di 55 miliardi di dollari. Ogni anno vengono prodotte oltre 24 miliardi di paia di scarpe, di cui la maggior parte sono sneakers, secondo il World Footwear Yearbook.
La produzione di sneakers pesa per l’1,4 per cento sulle emissioni globali di gas serra. Uno studio condotto dal MIT nel 2013 ha rilevato infatti che un paio di scarpe da corsa standard genera circa 13,6 chilogrammi di emissioni di CO₂.
Questo perché una grossa fetta delle sneakers presenti sul mercato è realizzata prevalentemente con fibre e materiali derivanti dalla plastica come il poliestere, il poliuretano termoplastico (Tpu), il polietilene tereftalato (Pet) e l’etilene-vinilacetato (Eva). Questa commistione di più materiali comporta anche un altro fattore negativo: i materiali, plastici ma diversi tra loro, solitamente sono tenuti insieme, cuciti o incollati, in modi spesso complicati, che ne rendono difficile il riciclo.
Un paio di scarpe da corsa standard comprende 65 parti che richiedono più di 360 fasi di lavorazione per essere assemblate: cucitura, taglio, stampaggio a iniezione, schiumatura, riscaldamento e così via. Il team del Mit ha messo nero su bianco il fatto che tali processi siano ad alta intensità energetica, e quindi ad alta intensità di carbonio.
L’industria delle sneakers è iniqua e inquinante
Oggi esistono molte alternative di sneakers realizzate con materiali bio-based o ecologici, ma questa produzione non è ancora su larga scala perché in termini di durabilità ancora c’è un po’ di strada da fare.
Le sneakers infatti devono resistere all’usura più di altre tipologie di scarpe, soprattutto quando si parla di scarpe acquistate non tanto per moda quanto per correre, fare trail running o comunque dello sport. Quando si tratta di prestazioni, ad oggi, i materiali sintetici sono ancora difficili da battere: rendono le scarpe più comode, morbide, resistenti e, soprattutto, performanti.
Tansy Hoskins, giornalista pluripremiata e scrittrice, nel suo libro “Foot work: what your shoes are doing to the world” spiega come il mondo della calzatura, in fatto di sostenibilità, sia dieci anni indietro rispetto a quello della moda. Hoskins si concentra soprattutto sull’aspetto che riguarda alle condizioni dei lavoratori del settore, spesso drammatiche.
Il volume ruota intorno ad alcune, fondamentali, domande: vale la pena distruggere la foresta pluviale per fare scarpe da ginnastica? È giusto che le fabbriche sfornino 24,2 miliardi di paia di scarpe all’anno, ma la ricchezza è distribuita in modo così diseguale che decine di migliaia di bambini si ammalano andando a scuola a piedi nudi? È giusto che le persone che conciano la pelle debbano avere un’aspettativa di vita di soli cinquant’anni?
Hoskins si è infatti concentrata su quello che gli oggetti rappresentano e ci raccontano di noi e della nostra società e, in questo caso, del capitalismo e dello strapotere delle aziende. La globalizzazione ha infatti portato a un cambiamento radicale nel luogo e nel modo in cui vengono prodotte le scarpe. Con una produzione così a buon mercato, solo nel 2018 sono stati prodotte 66,3 milioni di paia al giorno. Questo produce un impatto devastante sulle persone, sugli animali e, non da ultimo, sul Pianeta.
Scelte eco-conscious in fatto di sneakers
Le sneakers a pensarci bene pervadono ormai qualunque aspetto delle nostre vite, hanno una valenza tecnica, perciò ci accompagnano nella quasi totalità delle attività sportive, dalla corsa, al tennis e al trail running, ma sono anche cool. Ormai anche il mondo della moda e del lusso le ha accettate e inglobate. In poche parole è veramente difficile poter fare a meno di loro.
Nonostante il mondo della calzatura sia ancora indietro in termini di coscienza ambientale, come sostenuto da Hoskins, molti brand si sono messi al lavoro per cercare e trovare delle alternative bio-based. C’è il brasiliano Veja, che utilizza cotone e materiali riciclati oltre a gomma naturale, Allbird che indica l’impronta di carbonio necessaria per produrre le sue sneakers e Acbc che utilizza una metodologia che analizza i dati scientifici per misurare ed efficientare il processo per creare prodotti con un minore impatto ambientale.
Non solo, la vita delle sneakers, mediamente, è facile da allungare. Il punto più critico è la suola, che fortunatamente si può sostituire. Tra gli sneakerhead, ovvero tra quelli per cui la scarpe da ginnastica sono una sorta di culto, è sempre più usuale riparare e modificare le sneakers vecchie, o semplicemente che non piacciono più, risuolandole in maniera creativa.
Questa alternativa fornita dai più cool tra gli sneakerhead a ben vedere ha un risvolto positivo anche sull’ambiente: più usate sono, le sneakers, e meglio è, se poi sono state modificate allora sono ancora più uniche.
Il designer britannico Linus Nutland ad esempio ci ha costruito la sua fortuna nel risuolare e restaurare le Nike con le suole Vibram. L’azienda lecchese produce infatti suole in una mescola, la Megagrip, che oltre ad essere performante e offrire presa su tutti i tipi di terreno, è anche iper resistente all’usura.
In Italia il più famoso restauratore di sneakers è Jacopo De Carli, che nel 2018 ha fondato DcjLab, hub creativo dove si customizzano e riparano sneakers. Certo, ci sono risuolature d’autore, come quelle di De Carli e Nutland, ma sono tantissimi i negozianti e calzolai che aderiscono alla campagna di Vibram “Repair if you care” e che offrono il servizio di risuolatura per ogni tipo di scarpa.
Considerando che solo nell’ultimo anno sono state prodotte, in tutto il mondo, 24 miliardi di paia di scarpe, è chiaro che la spinta all’azione non è più procrastinabile e, laddove non siano le aziende e i brand a prendersi la responsabilità di una produzione più etica e sostenibile, noi consumatori abbiamo un enorme potere nelle nostre mani. Ovvero comprare meno e allungare la vita dei prodotti che abbiamo già, a maggior ragione nel caso delle sneakers, settore in cui questa operazione le rende ancora più uniche e speciali.
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