Le proteste studentesche che vogliono cambiare il volto autoritario della Serbia

Da oltre 100 giorni la Serbia è interessata da profonde manifestazioni guidate dagli studenti, a cui partecipano sempre più cittadini, contro corruzione e autoritarismo.

  • Le proteste in Serbia sono scoppiate dopo il crollo di una tettoia ferroviaria che ha causato 15 morti.
  • Gli studenti accusano il governo e il presidente Vučić di corruzione e di limitare diritti e libertà.
  • Nonostante alcune rivendicazioni dei manifestanti siano state accolte, le proteste vanno avanti.

Domenica 9 febbraio il traffico in Serbia era congestionato. Migliaia di studenti a Belgrado hanno occupato per sette ore il ponte Gazela, una delle arterie principali della capitale. Più a nord, altri manifestanti hanno bloccato per tre ore le strade di Novi Sad e lo stesso è successo nel centro meridionale di Nis, dove è stato bloccato un casello autostradale.

Il 9 febbraio ricorrevano i 100 giorni dall’inizio delle proteste che da novembre stanno cambiando il volto della Serbia. La tragedia del crollo di una pensilina della stazione ferroviaria di Novi Sad, avvenuto l’1 novembre scorso e costato la vita a 15 persone, è diventata la scintilla per un’enorme mobilitazione contro la corruzione e l’autoritarismo nel paese. A guidare le proteste pacifiche sono gli studenti, organizzati in modo orizzontale e senza alcuna leadership, ma con il passare delle settimane si sono uniti a loro sempre più cittadini. Il presidente Aleksandar Vučić da una parte ha condannato le mobilitazioni, dall’altra ha fatto alcune concessioni, portando anche alle dimissioni del primo ministro Miloš Vučević. Ma le proteste non si fermano.

Le proteste in Serbia
Le proteste in Serbia © ANDREJ ISAKOVIC/AFP via Getty Images

Le origini delle proteste in Serbia

L’1 novembre 2024 nella stazione ferroviaria di Novi Sad, la seconda città più grande della Serbia, è crollata una pensilina. Il bilancio è stato di 15 morti e numerosi feriti. La stazione ferroviaria era stata di recente interessata da lavori di ristrutturazione nell’ambito di un progetto per l’alta velocità volto a collegare la capitale serba Belgrado con la capitale ungherese Budapest. A realizzare i lavori, come spesso accade nel paese, alcune aziende statali cinesi come la China Railway International e la China Communications Construction, in questo caso con la collaborazione di altre aziende europee.

Sin dall’inizio le autorità serbe hanno negato che la pensilina fosse stata interessata da lavori di ristrutturazione, una posizione volta a liberare della responsabilità della tragedia le aziende appaltatrici. Poi però sono arrivate le dichiarazioni di uno degli ingegneri che hanno supervisionato i lavori nella stazione, Zoran Đajić. Quest’ultimo ha smentito le dichiarazioni del governo, in particolare quella del ministro dei Lavori pubblici Goran Vesić (dimessosi pochi giorni dopo l’incidente), e ha rivelato che anche la pensilina era stata oggetto di intervento. 

Queste rivelazioni hanno causato molto sdegno nel paese e hanno dato vita ai primi sit-in nella città di Novi Sad, organizzati dagli studenti universitari. Poi la protesta si è estesa al resto del paese, in particolare alla capitale Belgrado. Il 22 novembre gli studenti e i professori della facoltà di Arti drammatiche hanno partecipato al presidio nazionale “Stop, Serbia” in memoria delle vittime dell’1 novembre. Durante il presidio sono stati vittime di una spedizione punitiva da parte di persone incappucciate, alcune delle quali si sono poi rivelate essere iscritte al partito di governo e del presidente Vučić, il Partito Progressista Serbo. Questo ha alzato ulteriormente la tensione e la risposta degli studenti nelle settimane successive è stata l’occupazione di numerose facoltà dell’Università di Belgrado e di altri istituti nel paese, oltre che l’organizzazione di presidi e manifestazioni nei punti nevralgici della rete stradale serba, come successo il 9 febbraio in occasione dei 100 giorni dall’inizio della mobilitazione.

Cosa chiedono i manifestanti

Il crollo della tettoia nella stazione ferroviaria di Novi Sad e la scarsa trasparenza nella gestione della tragedia da parte del governo hanno fatto tornare d’attualità alcuni temi caldi in Serbia: la corruzione politica e l’autoritarismo.

Sin dai primi presidi i manifestanti, spesso con le mani dipinte di rosso a simboleggiare il sangue delle vittime della stazione, hanno chiesto al governo un’indagine trasparente sulla strage di Novi Sad e la pubblicazione dei documenti relativi alla ristrutturazione della stazione, così da fare chiarezza sulle responsabilità del crollo della pensilina. Tra le altre richieste ci sono state indagini sulle aggressioni agli studenti, la liberazione di alcune decine di manifestanti arrestati durante la prime proteste e l’aumento del budget per le università pubbliche. Con il passare delle settimane queste richieste specifiche si sono trasformate in una protesta diffusa contro il governo conservatore e autoritario e contro il presidente della Repubblica Aleksandar Vučić, che fu ministro dell’informazione alla fine degli anni Novanta del regime di Slobodan Milošević, per tornare al governo con cariche ministeriali nel 2012, diventare primo ministro nel 2014 e presidente nel 2017.

Le proteste in Serbia
Le proteste in Serbia © ANDREJ ISAKOVIC/AFP via Getty Images

Vučić domina la politica serba da oltre dieci anni ed è accusato di aver portato il paese verso l’autoritarismo. La magistratura è molto vicina al governo, dissidenti e opposizioni non hanno vita facile e anche la gestione degli appalti per le grandi opere pubbliche è finita più volte sotto i riflettori. L’organizzazione non governativa Freedom House ha declassato lo stato della democrazia serba in “parzialmente libera” e gli abusi di potere, le dinamiche clientelari, i brogli elettorali e l’assenza di pluralismo l’hanno portata a definire il paese un “regime ibrido”.

Negli scorsi anni ci sono state diverse proteste nel paese, come nel 2020 per la gestione del Covid-19 e nel 2021 contro lo sfruttamento del litio, ma sistematicamente il presidente ha saputo uscirne indenne, sfruttando queste mobilitazioni per dare ancora più contro le opposizioni e invocando complotti mai dimostrati su presunte interferenze di paesi stranieri

Nessuna gerarchia

I migliaia di studenti in protesta da oltre tre mesi in Serbia hanno deciso di non avere alcuna leadership e di organizzarsi e prendere decisioni in modo orizzontale, attraverso i meccanismi della democrazia diretta e senza alcuna connotazione politica.

Questa possibilità di partecipazione e di esprimere le proprie idee, senza che l’evoluzione delle proteste sia espressione di pochi leader, ha avvicinato molte persone alla mobilitazione. Dagli studenti si è passati ai professori, poi agli agricoltori, infine a numerosi altri professionisti e a comuni cittadini e il risultato è qualcosa che in termini di affluenza e consenso non si era mai visto in Serbia e, secondo alcuni analisti, nemmeno in Europa, quanto meno di recente. Il 22 dicembre, in una delle principali manifestazioni nella capitale Belgrado, erano in 100mila. Oggi circa il 61 per cento della popolazione serba sostiene le proteste e dietro a questi dati c’è un’unica motivazione: la speranza che il paese possa cambiare volto in un’ottica trasparente e democratica.

Per quanto le mobilitazioni oggi riguardino ampie fasce della popolazione, l’organizzazione resta in mano agli studenti. Nelle facoltà universitarie occupate più o meno ogni giorno si tengono assemblee a cui possono partecipare tutti gli studenti e durante le quali ci si aggiorna sull’evoluzione delle proteste e si vota a maggioranza sui prossimi passi da compiere. I rappresentanti delle diverse facoltà occupate si incontrano poi in altre assemblee, così da coordinare le proteste e cercare un’armonia tra le varie decisioni approvate a livello di singole università. Il meccanismo dell’organizzazione orizzontale, utile per coinvolgere quante più persone possibile nei processi decisionali, è anche conseguenza degli attacchi che sono soliti subire in Serbia gli attivisti e i dissidenti che prendono posizione contro il potere. In assenza di una leadership e con le decisioni prese a livello di singole assemblee, per le autorità del paese non è possibile individuare i responsabili delle mobilitazioni.

Concessioni e nuove rivendicazioni

Inizialmente il presidente Aleksandar Vučić ha trattato le proteste degli studenti in Serbia nello stesso modo in cui ha affrontato le mobilitazioni antigovernative degli anni precedenti: in modo sprezzante. 

Da una parte ha attaccato le opposizioni, accusandole di voler destabilizzare il paese e di essere la mente dietro le manifestazioni, nonostante gli studenti abbiano sempre rivendicato la propria natura pacifica e apolitica, senza alcuna affiliazione partitica. Dall’altra ha accusato presunte potenze straniere occidentali di manovrare le proteste, un’accusa smentita dal fatto che a differenza di altre proteste recenti, come quelle in Georgia, a Belgrado e nelle altre città serbe non si sono quasi mai viste bandiere dell’Unione europea. Anzi, l’atteggiamento dei manifestanti è particolarmente critico verso Bruxelles, visto che in questi mesi non ha mai dato sostegno alle mobilitazioni preferendo fare appelli per la stabilità nel paese e dunque a favore dello status quo.

Le proteste in Serbia
Le proteste in Serbia © NENAD MIHAJLOVIC/AFP via Getty Images

Quando poi le proteste si sono trasformate in una mobilitazione su larga scala, Vučić ha iniziato a fare le prime concessioni. Una parte dei documenti relativi alla ristrutturazione della stazione ferroviaria di Novi Sad è stata desecretata e il presidente ha promesso di aumentare il budget statale riservato all’educazione. Manifestazioni e presidi sono andati avanti, prendendo di mira in particolare il primo ministro Miloš Vučević, sindaco di Novi Sad ai tempi della ristrutturazione della stazione. A fine gennaio Vučić ha annunciato un rimpasto di governo e il giorno successivo il premier si è dimesso, decretando la caduta dell’esecutivo. Questo non ha placato le rivendicazioni degli studenti e del resto della popolazione, per una mobilitazione che è ormai andata ben oltre le richieste iniziali e si è trasformata in una contestazione contro tutta la classe politica che da anni tiene le redini del paese, in primis il presidente Vučić.

Come sottolinea Giorgio Fruscione, analista dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi), “il presidente Vučić si trova a un bivio: reprimere una protesta sin qui pacifica, col rischio di risultare ulteriormente impopolare, o cedere totalmente alle richieste della piazza, paventando un irreversibile cambio di regime. Non va escluso però che il presidente offra le ennesime elezioni, presentandole come un referendum sulla sua leadership, anche se difficilmente un nuovo voto sazierà il desiderio di giustizia e di stato di diritto della piazza”. I presidi molto partecipati del 9 febbraio per i 100 giorni dall’inizio delle proteste sono stati un ulteriore messaggio che la mobilitazione non ha intenzione di fermarsi nonostante le ultime concessioni presidenziali. L’obiettivo dei manifestanti è un cambiamento radicale del volto politico della Serbia e per il 15 febbraio è stata indetta una nuova, ingente manifestazione nazionale.

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