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Purplewashing: quando il femminismo delle aziende è soltanto una manovra di marketing
Le aziende sono spesso goffe nel comunicare battaglie che non appartengono realmente al loro operato. Ecco le insidie del purplewashing.
- Si parla di purplewashing quando le aziende vantano valori femministi a loro convenienza, pur senza agire realmente per la parità di genere.
- Ad oggi l’approccio alle tematiche di genere è sempre più diffuso ma spesso denota una certa superficialità.
Viviamo in momento storico di profondo cambiamento: nonostante la parità retributiva tra uomini e donne sia ancora una conquista lontanissima (gli analisti hanno stimato che possa avvenire tra 250 anni), le tematiche legate al genere e ai diritti delle donne si stanno prendendo la scena in maniera abbastanza importante rispetto al passato. Questo ovviamente non porta con sé cambiamenti fattuali, non sempre almeno, ma certamente ha contribuito a introdurre nella scena politica, sociale e mediatica un argomento che fino a qualche anno fa era molto sottotraccia. Ecco che anche i colori viola e fucsia, uno tradizionalmente affiancato alle lotte femministe fin dai primi movimenti del Novecento e l’altro adottato dal movimento femminista e transfemminista Non una di meno, sono entrati a far parte del lessico mediatico. Con il rischio di sfociare nel purplewashing.
Viola e fucsia, il colori del movimento femminista
La lotta femminista spesso si è sovrapposta e incrociata con quella operaia. Molti fonti storiche fanno risalire l’adozione del colore viola a un incidente avvenuto il 25 marzo 1911 in una fabbrica tessile newyorkese, la Triangle Shirtwaist Company, in cui morirono 146 persone. Per la maggior parte erano donne immigrate, impiegate dalla fabbrica per stipendi irrisori a fronte di orari di lavoro che raggiungevano le 52 ore a settimana. Per via di alcuni coloranti utilizzati dalla Triangle, il fumo che si sprigionò dall’edificio era di un viola intenso: gli storici riconducono quindi a quel fumo viola l’adozione di questo colore da parte dei movimenti femministi. Quanto al fucsia, è il colore scelto dal movimento femminista e transfemminista Non una di meno, fondato in Argentina nel 2015 ed espansosi poi a livello internazionale.
Il purplewashing come leva di marketing
A differenza del greenwashing e del rainbowwashing, quando si parla di purplewashing difficilmente ci si riferisce al colore in sé, generalmente poco usato per associarsi alle battaglie femministe, quanto all’attitudine dei brand di legarsi alla causa, non sempre in maniera genuina. Il capitalismo è stato infatti in grado di accogliere discorsi femministi, antirazzisti o ecologisti e incorporarli nella propria narrazione. Poiché la società ama l’inclusione, per lo meno a parole, è facile che politici, pubblicitari o altri leader istituzionali utilizzino solo alcuni valori femministi a loro convenienza. Marketer e politici avviano campagne o fanno discorsi sul femminismo anche quando in realtà la loro opinione personale o le azioni delle loro aziende o fondazioni non sono così favorevoli alla parità di genere.
Le aziende e i politici spesso identificano l’inclusività come un’idea commerciabile che può portare loro pubblico o voti. Con il termine purplewashing si intende infatti l’appropriazione e la strumentalizzazione di linguaggi, simboli, temi e valori del femminismo e dell’inclusività per scopi di marketing aziendale. Oggi questa è una pratica piuttosto diffusa, ma questo termine è stato usato per la prima volta più di vent’anni fa dalla campagna Think before you pink con cui l’associazione Breast cancer action denunciava proprio l’enorme quantità di prodotti pubblicizzati tramite il fiocchetto rosa associato alla lotta al cancro al seno che poi non corrispondevano a una reale donazione da parte dei brand. Il significato negli anni si è allargato a tutte quelle manifestazioni più o meno mendaci, più o meno goffe, che utilizzano la parità di genere come leva per promuoversi.
L’approccio alle tematiche di genere spesso è ancora superficiale
“Se da un lato è aumentato l’interesse e la volontà di interessarsi alla tematica, sento che l’approccio è tuttavia abbastanza superficiale”, argomenta Miriam Mastria, direttrice di Semia – Fondo delle donne, il primo fondo femminista italiano a sostenere organizzazioni, gruppi, collettivi e attivisti impegnati a rendere l’Italia un paese più inclusivo, equo e sicuro per le ragazze, le donne, le persone transgender e non binarie. “Le aziende si stanno avvicinando sempre più alle tematiche femministe, solo che questa parola nella maggior parte dei casi rimane un tabù, si preferisce parlare dei diritti delle donne e di uguaglianza. C’è più sensibilizzazione e c’è più volontà di capire, ma allo stesso tempo mancano cultura e consapevolezza. In molti casi le grandi aziende vogliono fare delle donazioni, ma poi hanno paura delle parole giuste. Pensano che l’attivismo sia una cosa troppo difficile con cui avere a che fare”.
Com’è cambiato nel tempo l’approccio delle organizzazioni alle tematiche di genere?
Diciamo che l’approccio è ancora molto basato sul guardare alla tematica femminile o dei diritti delle donne da un punto di vista di salvaguardia e protezione. Le aziende e le fondazioni sono interessate a sensibilizzare sul tema della violenza contro le donne – e questo va bene, perché ce n’è bisogno e perché anche rispetto ad altri paesi siamo molto indietro rispetto alla Convenzione di Istanbul – ma questo crea uno scostamento rispetto al tema dei diritti. Troppo spesso si dipinge la donna come qualcuno esclusivamente da proteggere e non come un soggetto politico che ha bisogno di prendere le proprie libertà e i propri diritti e viverli. Succede infatti spesso che le campagne non vengano affidate alle persone che si occupano di tematiche di genere, ma vengano scritte da agenzie di comunicazione che magari non hanno mai affrontato la tematica in vita loro e quindi il risultato non è sempre meraviglioso. È anche molto evidente come la volontà di inclusività si manifesti di più in determinati momenti dell’anno e come poi non corrisponda con la realtà dell’azienda, che magari non ha politiche di supporto per le lavoratrici.
Come si fa a riconoscere una comunicazione coerente e sincera da una più opportunistica?
Molte aziende italiane negli ultimi anni hanno introdotto il sistema di certificazione della parità di genere: un controllo cioè effettuato da un’organizzazione esterna che realizza dei sondaggi per valutare l’azienda in termini di lavoro femminile e di gender pay gap ad esempio. Anche se è difficile, soprattutto per le piccole aziende, avere una certificazione di parità di genere che corrisponda esattamente alla realtà dell’organizzazione. Capita che si ottenga la certificazione ma poi ci sia una discrepanza tra i risultati e le politiche interne.
Per quello che riguarda le ong e le realtà del terzo settore, ad esempio, prima di lavorare con un’azienda e portare avanti iniziative di fundraising, si compie prima un processo di due diligence. Questo iter consiste nello screening sull’azienda, prima di tutto per verificare la provenienza dell’utile e dei capitali della società. Poi si cerca di fare una sorta di assessment per cui, se l’azienda vuole sostenere la tematica del lavoro femminile, è necessario che abbia delle politiche di HR che tutelino i diritti delle lavoratrici e che garantiscano che siano gli stessi dei lavoratori. O che, ad esempio, ci siano politiche interne che si prendano cura delle necessità delle donne o delle comunità Lgbtqia+. Molte volte infatti riscontriamo pratiche discriminanti nei confronti della comunità Lgbtqia+, delle donne disabili o delle comunità marginalizzate come quelle razzializzate, ad esempio.
L’ottica in cui vengono fatte queste collaborazioni risponde al principio di share value: le aziende decidono di donare e condividere un pezzo del loro valore con una ong o una no profit in un’ottica di scambio ma, perché l’ente benefico non venga danneggiato dall’operazione, sono necessarie verifiche di questo tipo. Spesso succede che, quando da parte delle aziende ci sono delle grosse lacune in questo senso, a fronte di una donazione maggiore venga richiesto un training o comunque un supporto tailor made in modo che le loro politiche possano essere in linea con l’operazione di donazione o la collaborazione. Perché spesso il problema è a monte, e cioè che le aziende non sanno proprio come affrontare certe tematiche o a chi rivolgersi per poter fare le cose bene.
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