Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Quanta acqua serve per produrre i nostri abiti
L’impronta idrica di tessuti e lavorazioni è un fattore cruciale da tenere in considerazione per fare acquisti responsabili da un punto di vista ambientale.
- Per produrre i nostri vestiti, globalmente vengono impiegati ogni anno 79 milioni di metri cubi d’acqua.
- L’impronta idrica non è uguale per tutti i tessuti e, soprattutto, per ogni settore merceologico esistono delle scelte in grado di impattare più o meno sul consumo di acqua.
- La differenza la fanno principalmente i processi produttivi e le intenzioni dei produttori. Per questo, per fare acquisti responsabili, è necessario conoscere in quali situazioni si spreca più acqua.
C’è un dato che tutti noi ormai conosciamo a memoria: per fabbricare una semplice T-shirt bianca servono 2.700 litri d’acqua. Se pensiamo che questo è l’indumento più comune al mondo, e che ogni anno ne vengono prodotte e vendute circa due miliardi, è facile calcolare quale danno ambientale sia in grado di produrre il più basico dei capi che tutti abbiamo nell’armadio.
Ma quanta acqua serve, in generale, per produrre i nostri abiti? Il report di Global fashion agenda, nel 2017, fissava questa stima in 79 milioni di metri cubi di acqua, ovvero una quantità tale da riempire 32 mila di piscine olimpioniche. Non tutti i tessuti, però, sono uguali: per fare acquisti responsabili dal punto di vista del consumo di acqua, è necessario conoscere l’impronta idrica dietro le varie lavorazioni.
Cotone
Il problema maggiore legato alla produzione del cotone riguarda la sua coltivazione tradizionale e intensiva: per massimizzare la produzione vengono impiegate in larga parte sostanze chimiche e inquinanti a partire dal seme, che viene trattato con pesticidi prima ancora di essere piantato. L’uso di diserbanti e sostanze chimiche è massiccio: queste vengono distribuite spesso per via aerea coprendo vaste zone con conseguenze disastrose sul suolo, che si impoverisce anno dopo anno perdendo fertilità. Questo si traduce soprattutto in un imperativo: consumare più acqua. Più il terreno è arido e più avrà bisogno di essere irrigato per mantenere lo stesso livello di produttività. Uno studio di Waterfootprint.org relativo al periodo 1997-2001 evidenzia che circa l’84 per cento dell’impronta idrica del consumo di cotone nella regione dell’Unione europea si trova al di fuori dell’Europa, con impatti importanti soprattutto in India e Uzbekistan. In poche parole: qualcun altro paga il prezzo del cotone che indossiamo. Il prezzo più alto in termini di salute, perché quello in termini di impatto ambientale lo paghiamo tutti.
Il cotone biologico da questo punto di vista ha un’impronta idrica molto minore perché nella sua produzione è vietato l’utilizzo di sostanze chimiche come pesticidi e diserbanti: essendo ricavato da una pianta più antica e meno produttiva in termini di resa, sfibra meno il terreno, lasciandolo più ricco di sali minerali e quindi più fertile e meno bisognoso di acqua. Aspetto, questo, garantito anche dalla rotazione delle colture, tecnica che favorisce la biodiversità e il mantenimento dell’equilibrio del terreno e della vita al suo interno. Il cotone che si merita queste certificazioni quindi, la Global organic textile standard (Gots) e la Organic content standard (Ocs), porta a un minore utilizzo di acqua, ma purtroppo rappresenta solamente l’1 per cento della produzione mondiale di cotone.
Il cotone in assoluto migliore dal punto di vista dell’impronta idrica è tuttavia il cotone rigenerato, quello cioè che sull’etichetta riporta la sigla Grs (Global recycle standard) e che è ottenuto attraverso un’azione meccanica che sfilaccia gli scarti di tessuto e poi li fila di nuovo. Niente acqua perché non c’è necessità di far crescere del cotone da zero, ma viene filato nuovamente quello che già è stato prodotto.
Jeans
Per quanto riguarda il denim, ovvero il tessuto di cui sono fatti i jeans, valgono tutti i discorsi appena fatti riguardo al cotone, che è la fibra che compone questo tessuto e che viene poi colorata con l’indaco – il responsabile della classica colorazione blu scuro – e poi definita esteticamente attraverso lunghi processi di lavanderia. Si stima che, in media, per produrre un paio di jeans siano necessari tra i 7 e i 10mila litri di acqua.
Tolta la produzione del cotone, per cui valgono i discorsi di cui sopra, la fase più critica dal punto di vista dell’impronta idrica è quindi quella di lavanderia. Chiaramente ci sono metodi più o meno invasivi per realizzare questo processo e la differenza cruciale sta soprattuto nel luogo dove il denim viene prodotto: in paesi come Turchia, Cina, India, Bangladesh e Pakistan vengono ancora utilizzate, nella stragrande maggioranza dei casi, lavatrici vecchie e non efficientate dal punto di vista del consumo di acqua.
Brand come Levi’s hanno investito in ricerca e sviluppo per arrivare ad utilizzare meno acqua nella produzione dei propri jeans, riuscendo a risparmiare oltre un miliardo di litri all’anno, mentre esistono realtà italiane, come Candiani – con sede nel Parco nazionale del Ticino – che, per ogni pantalone prodotto, impiega solo 10 litri contro i 70-150 standard. In merito al denim, quindi, un buon indicatore per capire di che impronta idrica stiamo parlando è il luogo di produzione. Detto questo, l’80 per cento dell’impatto sull’ambiente di un jeans durante il suo ciclo di vita è dato dai lavaggi domestici: per ridurre l’impronta idrica dei nostri acquisti, dunque, dovremmo in generale lavarli di meno – cosa che, nel caso del denim, ne favorisce anche l’aspetto estetico.
Cuoio
Un rapporto dell’Unesco ha calcolato quanta acqua ci vuole per produrre vari accessori di cuoio, tenendo conto dell’origine del pellame, ovvero le mucche. L’impronta idrica dell’allevamento di bovini per la pelle è di 17.100 litri di acqua per kg di pelle prodotto: se una mucca produce 6,1 kg di pelle, significa che il consumo totale di acqua per produrre quella quantità di pellame sarà di 104.310 litri (17.100 l x 6,1 kg). Con tale quantitativo si ricavano circa 5 metri quadrati di pelle; quindi, se dividiamo i 104 e rotti litri necessari per i metri quadrati otteniamo che l’impronta idrica di ogni metro quadrato di pelle prodotta è di 1.897,5 litri. Per fabbricare un paio di scarpe sono necessari 0,3 metri quadri di pelle, mentre per un paio di stivali ne servono circa 6: ecco che, sempre stando ai conti elaborati in questo report, l’impronta idrica di un paio di scarpe di cuoio è di 569,25 litri, mentre quella di un paio di stivali è di 11.385.
Questo conteggio, poi, non tiene conto del processo di concia della pelle, altro fattore che fa schizzare in alto l’indicatore dell’impronta idrica della produzione del cuoio. Storicamente le concerie nascevano tutte nelle vicinanze dei fiumi, perché senz’acqua sarebbe impossibile tingere la pelle. Nel processo di lavorazione della pelle, l’acqua ha infatti due funzioni: fare da solvente per le sostanze chimiche necessarie, e consentire alla pelle di non graffiarsi o danneggiarsi durante il processo di concia. Il processo di preparazione è quello più idrovoro in assoluto anche se, negli ultimi 25 anni, è stato ridotto notevolmente grazie alla ricerca in questo settore; tuttavia, il tipo di pelli usate nella moda può necessitare, per la fase di concia, fino ai 27 litri per taglio. Questo esclude però processi come la pulizia e la manutenzione della conceria e il fatto che questo tipo di industrie disperdano sostanze chimiche inquinanti alimentando il processo di cui sopra. Secondo il report sulla sostenibilità di Swartz, la differenza di utilizzo può essere piuttosto significativa: la concia vegetale, in particolare, utilizza moltissima acqua.
Le alternative vegetali – e non sintetiche – al cuoio ci sono: tessuti ricavati a partire da cactus, scarti di arance, ananas o funghi. La ricerca in questo senso ha fatto passi da gigante e, in termini di qualità e durevolezza, si tratta di alternative valide – e cruelty-free – alla pelle vera e propria.
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