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Quanto è “buono” il pomodoro? La raccolta tra caporalato e filiere etiche
Dietro la raccolta di pomodoro nei campi spesso si cela il caporalato. Ma una filiera sostenibile è possibile, come dimostrano alcuni progetti virtuosi.
- L’Italia è il secondo produttore al mondo di pomodoro dopo gli Stati Uniti.
- La raccolta di pomodori è legata di frequente a fenomeni di caporalato con sfruttamento di lavoratori, italiani e immigrati, pagati pochi euro per una giornata di lavoro nei campi.
- La lotta per i diritti dei lavoratori passa dal riconoscimento di un salario minimo, dalla riforma della filiera agricola e dall’equo compenso per l’agricoltura.
- Associazioni e cooperative portano sul mercato pomodoro “caporalato free”.
L’estate è la stagione del pomodori che maturano al sole nei campi: secondo i dati Ismea, nel 2021 in Italia ne sono stati raccolti sei milioni di tonnellate che l’industria alimentare ha trasformato in pelati, salse e passate, per un fatturato di 3,7 miliardi di euro. Una raccolta che ha fatto del nostro paese il secondo produttore al mondo di pomodoro fresco, dopo gli Stati Uniti e prima della Cina, ma dietro cui spesso si celano filiere socialmente insostenibili a causa dello sfruttamento dei lavoratori nelle aziende agricole. Un fenomeno comunemente definito caporalato.
Caporalato: illegalità e sfruttamento nella raccolta del pomodoro
Sono i “caporali” che, per conto della proprietà agricola, reclutano illegalmente stranieri (il più delle volte irregolari) ma anche italiani (donne soprattutto) per il lavoro a giornata nei campi. Un lavoro pagato in nero, senza riconoscere loro il rispetto degli orari di lavoro e di un salario minimo. Anzi, trattenendo una parte del compenso e facendosi pagare persino il trasporto al luogo di raccolta. I braccianti si trovano così a raccogliere pomodori per dieci o dodici ore, sotto il sole cocente, per un compenso irrisorio: dai 3 ai 5 euro per un cassone da 300 chili di pomodori.
Braccianti vittime del lavoro: le morti dai campi ai ghetti
Così l’estate diventa anche la stagione delle storie tragiche dei braccianti che, nel peggiore dei casi, muoiono nei campi stremati dal caldo e dalla fatica; che rimangono vittime di incidenti stradali coi furgoncini, guidati dai caporali, in cui sono stipati nel viaggio verso il luogo di raccolta; o che perdono la vita negli incendi dei ghetti, gli insediamenti tra le campagne in cui si rifugia chi non ha documenti o una casa e che spesso assumono le dimensioni di vere e proprie baraccopoli con migliaia di persone. Sono luoghi dove l’integrazione si perde e si insedia, di nuovo, la criminalità organizzata. E dove manca ogni tipo di sicurezza.
Lo scorso giugno Yusupha Joof, un bracciante 35enne del Gambia, è morto carbonizzato tra le fiamme sorte nella sua baracca nel ghetto di Torretta Antonacci, nel foggiano, uno dei territori dove si concentra gran parte della produzione italiana di pomodori. Quest’anno, il governo ha assegnato 200 milioni di euro dei fondi del Pnrr ai Comuni per il superamento degli insediamenti abusivi dei braccianti agricoli e la realizzazione di alloggi dignitosi destinati ai lavoratori del settore agricolo ma, come dichiarato dall’associazione Terra!, i ghetti sono solo una parte del problema che richiede il ripensamento dell’intero sistema agricolo nazionale.
Caporalato, una piaga che riguarda tutta l’Italia
Nel 2020 il V Rapporto Agromafie e Caporalato, a cura dell’osservatorio Placido Rizzotto per Flai-Cgil, quantificava in circa 180mila i lavoratori particolarmente vulnerabili e. quindi, soggetti a fenomeni di sfruttamento. Questi ultimi non riguardano solo il sud e solo il pomodoro: come rivela l’indagine Geografia del caporalato, realizzata dallo stesso osservatorio, sono 405 le aree lungo tutto lo Stivale interessate da fenomeni di sfruttamento e caporalato: 123 nel meridione, 71 nelle isole, le altre tra nord e centro. La scorsa primavera ha fatto notizia una sentenza a Saluzzo, in provincia di Cuneo. Si è trattato infatti di una delle prime con cui, al nord, sono stati condannati alcuni caporali e proprietari di aziende agricole in un processo partito dalla denuncia di braccianti sfruttati.
Contrasto al caporalato: dalla legge 199 all’equo compenso
Una condanna resa possibile dalla legge 199/2016 che ha introdotto strumenti di controllo, oltre a sanzioni e pene per caporali e titolari delle aziende agricole colpevoli di sfruttamento del lavoro. Ma c’è ancora molto da fare. Aboubakar Soumahoro, rappresentante della Lega dei braccianti e portavoce di Invisibili in movimento, il 4 luglio si è incatenato davanti a Montecitorio inaugurando uno sciopero della fame e della sete per dare voci a tanti lavoratori sfruttati e chiedere un confronto con il premier Mario Draghi sul salario minimo legale, l’adozione di un piano nazionale contro gli infortuni sul lavoro e la riforma della filiera agroalimentare.
Sì, perché la soluzione alla piaga del caporalato coinvolge tutti: agricoltori, organizzazioni di produttori, industria conserviera, grande distribuzione, consumatori. La contrattazione al ribasso del prezzo dei prodotti agricoli ostacola il riconoscimento di un equo compenso. Secondo Coldiretti, quando si acquista una passata al supermercato si paga più per la confezione che per il suo contenuto. In una bottiglia da 700 ml, in vendita mediamente a 1,30 euro, solo l’8 per cento è il valore riconosciuto al pomodoro. Oltre la metà (53 per cento) rappresenta il margine della distribuzione commerciale con le promozioni. Il resto serve a coprire i costi di produzione industriale (18 per cento), della bottiglia (10 per cento), dei trasporti (6 per cento), del tappo e dell’etichetta (3 per cento) e della pubblicità (2 per cento).
Pomodoro etico: una filiera sostenibile è possibile
Un’altra filiera, etica, è possibile. C’è chi nel settore agricolo coltiva e produce assumendo legalmente i migranti. Servono però strumenti che distinguano chi sceglie la strada della legalità da chi opera in condizioni di sfruttamento.
In generale, leggendo l’etichetta di una passata di pomodoro non si può sapere se è stata prodotta attraverso lo sfruttamento di qualcuno. Ci sono però prodotti che sicuramente escludono questa possibilità. Sono ad esempio le conserve e l’ortofrutta fresca dell’associazione No Cap, nata dal vissuto di Yvan Sagnet, camerunense che per primo ha fatto luce sul fenomeno del caporalato con uno sciopero per i diritti dei lavoratori nel 2011 a Nardò, in Puglia.
O ancora i pelati “Riaccolto”, frutto del lavoro degli ospiti di Casa Shankara Ghetto out. L’organizzazione di volontariato gestisce l’azienda agricola Fortore, a San Severo, data in concessione dalla Regione Puglia, ed è impegnata nella creazione di una realtà alternativa al ghetto dove vivere e progettare un percorso legale e dignitoso di inserimento economico e sociale.
Tomato Revolution, invece, è il progetto caporalato-free di Altromercato. Collabora con cooperative come Prima Bio che, non lontano dal ghetto di Rignano in Puglia, porta avanti una politica di assunzioni legale e multietnica; o come Pietra di Scarto che coltiva pomodori e olive su terreni confiscati alla mafia foggiana, con l’obiettivo di trasformarli in un laboratorio di rinascita.
La scelta di prodotti che si dichiarano provenienti da filiere legali ed etiche aiuta i consumatori a fare la propria parte nella lotta al caporalato e a non assecondare la logica delle offerte a basso costo. Poiché, dietro un prezzo troppo piccolo, c’è qualcun altro che paga il conto.
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