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Il crollo del Rana Plaza, dieci anni fa, è stato un punto di non ritorno
A dieci anni dalla tragedia del Rana Plaza, l’industria della moda ha fatto passi avanti, ma continua la pressione per una filiera migliore.
- 1.138 morti e oltre 2.600 feriti e invalidi per la vita: questo fu il bilancio del più grande disastro dell’industria della moda, ovvero il crollo del Rana Plaza.
- I marchi occidentali tardarono ad assumersi la responsabilità della tragedia, ma la pressione internazionale portò a due accordi che ancora oggi sono considerati la più grande eredità di quell’episodio: l’accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi nelle fabbriche del Bangladesh e il Rana Plaza arrangement per i risarcimenti ai superstiti e alle famiglie delle vittime.
- Nonostante i risultati raggiunti, le questioni aperte per i lavoratori dell’industria moda rimangono tante e sono state esacerbate dalla pandemia e dall’avvento del cosiddetto ultra fast fashion.
I morti non arrivano mai senza avvisare. Quella volta, poi, furono talmente tanti che non potevano più essere ignorati. Le 1.138 vittime del crollo del Rana Plaza, avvenuto 10 anni fa in Bangladesh, il 24 aprile 2013, non furono inaspettate. È stata la classica tragedia annunciata. Lo illustra bene la linea del tempo sul sito Rana Plaza never again, che ricostruisce gli incidenti precedenti avvenuti sempre nell’area di Dacca, dove si concentrano le fabbriche produttrici di abbigliamento.
Lo ricorda bene Deborah Lucchetti, coordinatrice italiana della campagna Abiti Puliti, che quel giorno si trovava ad Amsterdam alla sede centrale di Clean Clothes, il network internazionale composto da 240 associazioni che promuove i diritti dei lavoratori nella moda. “Per noi quella notizia non fu sorprendente perché lavoravamo su casi simili da anni”, ricorda oggi Lucchetti, “quello che non ci aspettavamo fu, in effetti, la portata mediatica di quella tragedia, particolarmente grave, e anche la sua durata del tempo. Saper cogliere quella finestra di attenzione è stato fondamentale da parte di Clean Clothes Campaign e di altri attivisti per fare pressione sui marchi coinvolti e arrivare così a due grandi risultati: l’accordo sulla sicurezza e la prevenzione degli incendi nelle fabbriche del Bangladesh e il Rana Plaza arrangement per i risarcimenti ai superstiti e alle famiglie delle vittime. Il crollo del Rana Plaza è stato uno spartiacque, per ciò che ha generato in termini di consapevolezza sugli impatti della moda e direi anche di svolta sul piano normativo“. L’evento ha contribuito anche a cambiare il modo in cui il pubblico percepiva l’industria della moda e del fast fashion in particolare, tanto che ha dato il via al movimento internazionale di Fashion Revolution, in Italia coordinato da Marina Spadafora.
Dacca, Bangladesh: i fatti del 23 e 24 aprile 2013
Il giorno precedente il crollo, il 23 aprile, alcune lavoratrici del complesso alla periferia di Dacca, che ospitava cinque fabbriche di abbigliamento ai piani superiori e negozi a quelli inferiori, notarono delle crepe strutturali nell’edifico. Mentre alcuni negozi decisero di chiudere, alle operaie delle fabbriche fu imposto di tornare al lavoro il giorno successivo. Nessun sindacato, nessun diritto e tanta paura di perdere il posto e il salario, costrinsero quelle persone a rientrare al Rana Plaza poche ore prima del collasso. Intere famiglie furono spazzate via, alcuni corpi non furono mai ritrovati, altri ottennero un nome solo dopo l’analisi del dna. Servirono settimane per fare chiarezza sul numero delle vittime: “Hanno cercato di spostare a mano le lastre di cemento sopra di noi. Le persone mi tiravano da entrambi i lati finché sono riuscite a tirarmi fuori. Il peso del cemento aveva compromesso l’utero, che mi hanno dovuto rimuovere completamente quella sera stessa”, ha raccontato Shila Begum, una sopravvissuta di 26 anni.
La ricerca delle etichette e la lotta per i risarcimenti
Come Shila, almeno altre 2.600 persone rimasero ferite, molte invalide per la vita. Come lei, gli altri feriti e le famiglie delle vittime pretendevano giustizia. “Dei due accordi, sicuramente quello per il risarcimento delle vittime fu il processo più lungo e difficile”, spiega Lucchetti, “nessun brand voleva metterci i soldi, perché sarebbe stata un’ammissione di responsabilità inequivocabile. E alla fine, pur di arrivare a un accordo, fu concesso ai marchi di versare il denaro in un fondo, il Trust Fund, anche in modo anonimo. Alcuni fecero proprio così”. Nei giorni successivi al crollo, infatti, nessun marchio di moda si fece avanti ammettendo di rifornirsi da quelle fabbriche. Furono i giornalisti, gli attivisti, le persone del luogo a scavare sotto le macerie e a ritrovare le etichette dei vestiti o i fogli con gli ordini che citavano esplicitamente i nomi di quelli coinvolti, tra questi l’italiana Benetton, tra i più restii ad ammettere le proprie responsabilità, Auchan, Gap, H&M, Mango, Primark.
“L’accordo per i risarcimenti riuscì a raccogliere circa 30 milioni di dollari”, prosegue Lucchetti. “È un accordo storico, poi usato come modello per altre situazioni. Lo schema di risarcimento fu coordinato dall’Organizzazione internazionale del lavoro, e prevedeva la compensazione per i salari mancati, a causa dell’invalidità o della perdita del famigliare lavoratore, e per le cure mediche. Non includeva, però, i danni psicologici. I risarcimenti furono calcolati sulla base dei salari di povertà di quei lavoratori, quindi quei 30 milioni non sono poi tanti come sembrano. E fu necessaria una campagna incessante durata due anni per chiudere l’accordo. L’eredità più importante rimane sicuramente il fatto che per la prima volta i risarcimenti furono riconosciuti in base alla convenzione sugli infortuni sul lavoro, stabilendo di fatto che il committente è responsabile di quanto accade nella sua filiera e quindi deve farsi carico del destino dei lavoratori, anche se non sono diretti”.
Rana Plaza, l’importante eredità dell’accordo sulla sicurezza
Allo stesso modo anche l’accordo per la sicurezza fu un passaggio fondamentale che permette oggi ai lavoratori di Dacca di essere più sicuri di dieci anni fa, continua Lucchetti: “Di quello si gettarono le basi un paio di mesi dopo il crollo e furono in tanti brand a firmarlo, più di 200. È stato già rinnovato due volte e sostanzialmente si basa su ispezioni qualificate e indipendenti, che individuano i problemi ed elaborano piani correttivi. Tutto è pubblico. I lavoratori hanno la possibilità di fare segnalazioni in modo anonimo e ricevono una formazione adeguata in ambito sicurezza. Da un lato le imprese committenti hanno l’obbligo di garantire finanziariamente la riqualificazione dei loro fornitori, dall’altro le fabbriche che non si adeguano, dopo un certo numero di richiami, vengono espulse dalla possibilità di fornire i marchi firmatari. E questo è ovviamente un grande deterrente. Nel corso di 10 anni, questo accordo ha messo in sicurezza 1.600 fabbriche per circa 2,5 milioni di lavoratori: per questo oggi è fondamentale difenderlo ed espanderlo, come è appena avvenuto in Pakistan”.
Una campagna europea per il salario dignitoso
Il nesso comune di entrambi questi accordi, che ha permesso loro di funzionare, sono gli obblighi che vincolano i firmatari. Come spiega Priscilla Robledo, coordinatrice lobby & advocacy di Abiti Puliti: “Negli anni abbiamo capito che tutto ciò che viene fatto in maniera volontaria da parte dei brand non è efficace. Il mercato non è in grado di autoregolamentarsi efficacemente sulle questioni relative a sicurezza, trasparenza, diritti dei lavoratori, salari dignitosi. Servono delle norme. Per questo anche la campagna che stiamo portando avanti sul salario dignitoso Good clothes, fair pay ha l’obiettivo finale di arrivare a una proposta legislativa europea su questo tema, che vada a integrare la proposta di direttiva sulla due diligence di cui si sta discutendo a Bruxelles.
Chi lavora ha diritto a un salario che consenta di vivere dignitosamente e di dare una vita altrettanto dignitosa alla propria famiglia” (per contribuire alla campagna si può firmare online). A livello di trasparenza, poi, il crollo del Rana Plaza ha dato il via a un’altra grande campagna di pressione, quella per il Transparency Pledge, per far sì che i brand di moda condividano la propria lista fornitori. Continua Robledo: “Era qualcosa di impensabile un tempo: per le aziende era un segreto commerciale. Oggi chi aderisce al Transparency Pledge pubblica online nome, indirizzo, numero di lavoratori e tipo di prodotti che acquista da una determinata fabbrica. È un’informazione cruciale che viene utilizzata da attivisti, sindacati e lavoratori, che spesso, come al Rana Plaza, non sanno nemmeno per chi stanno producendo quei capi o accessori”.
Nonostante i risultati raggiunti, le questioni aperte per i lavoratori dell’industria moda (stimati in più di 75 milioni, di cui l’85 per cento donne) rimangono tante e sono state esacerbate dalla pandemia e dall’avvento del cosiddetto ultra fast fashion, come commenta Lucchetti: “Questo modello, ancora più veloce del fast fashion, ha amplificato i problemi. I fornitori vengono schiacciati da richieste di una produzione sempre più veloce e a costi sempre inferiori”. L’area asiatica rimane di grande importanza per la campagna Clean Clothes che opera in stretta collaborazione con i sindacati e le realtà locali, che contribuiscono ai tavoli di lavoro internazionali, “ma per noi europei, e italiani in particolare, l’attenzione va rivolta anche al blocco dell’Europa orientale. Croazia, Serbia, Romania, Bulgaria, Turchia sono Paesi dove osserviamo gli stessi gravi problemi”, conclude Lucchetti, “l’industria della moda deve cambiare radicalmente: obblighi e responsabilità vanno imposte per legge o via negoziale alle imprese a devono valere su tutta la filiera”.
Su tutto questo è necessario continuare a lavorare, puntando a un cambiamento del sistema moda e anche delle modalità di consumo della moda stessa da parte del pubblico. A dieci anni dal Rana Plaza la pressione per una filiera più etica e sicura per i lavoratori e lavoratrici di tutto il mondo non può fermarsi.
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