Editoriale

Cosa dice il “rapporto Draghi” su ambiente, clima e diritti

Il corposo rapporto consegnato da Mario Draghi su competitività ed economia sembra far primeggiare innanzitutto le necessità delle imprese.

L’Unione europea è in una fase di “crisi esistenziale”, e se non cambierà marcia la sua sarà “una lenta agonia”. Per evitarlo, servono investimenti giganteschi, pari a 750-800 miliardi di euro all’anno. Il triplo di quanto aveva previsto il celebre piano Marshall adottato all’indomani della Seconda guerra mondiale per permettere al Vecchio continente di essere ricostruito. Il rapporto dell’ex presidente della Banca centrale europea, nonché ex presidente del Consiglio italiano, Mario Draghi, sul futuro della nostra competitività costituisce al contempo un campanello d’allarme sulla situazione economica dell’Unione europea e, in parte, una critica ai dogmi rigoristi. Ma non propone soluzioni rivoluzionarie, non pone in discussione il modello di sviluppo e subordina una serie di obiettivi ambientali e climatici alla necessità di garantire competitività e crescita.

Reddito, popolazione, geopolitica: la fotografia della situazione nel rapporto Draghi

Il documento è stato presentato lunedì 9 settembre e costituisce in primo luogo una fotografia dello stato dell’arte. Decenni di politiche economiche di matrice e impostazione neoliberista, basata innanzitutto sull’ortodossia di bilancio, hanno portato a “un aumento del reddito reale disponibile per abitante negli Stati Uniti quasi doppio rispetto all’Europa, dal 2000 ad oggi”. E la dinamica, allo stato attuale, non indica in alcun modo un cambio di rotta.

Andremo incontro a un invecchiamento della popolazione, di qui al 2040, che maschererà in parte questa situazione, senza però nasconderla del tutto: “Siamo sempre meno a spartirci una torta sempre più piccola, senza capire dov’è il dramma”, ha spiegato Draghi. E il tempo a disposizione per evitare di entrare in una lunga fase di declino è ormai poco: “Se l’Europa non riuscirà a migliorare la sua produttività, saremo costretti a fare delle scelte. Non riusciremo a diventare leader nelle nuove tecnologie, modello di responsabilità sui cambiamenti climatici e attori indipendenti su scala mondiale. Non potremo finanziare il nostro modello sociale. Saremo costretti a rivedere al ribasso alcune, se non tutte le nostre ambizioni”.

La richiesta di maggiori fondi per la difesa

Nelle quattrocento pagine consegnate alle istituzioni europee, Draghi spiega che occorre un piano epocale, che deve toccare tutti gli ambiti economici: occorre che ci si doti di una mano d’opera qualificata, che si investa nella ricerca, che si costruisca un mercato interno funzionante, si snellisca la burocrazia, si agisca in modo stringente sul settore energetico. Il tutto con nuove regole in materia di concorrenza, che comprendano una coerenza tra le politiche commerciali, ambientali e climatiche. Ma soprattutto, che si investa sulle nuove tecnologie, riducendo la dipendenza dalla Cina.

Ma a spiccare nel piano Draghi, in realtà, è soprattutto l’attenzione al settore della difesa, che dovrebbe perfino arrivare a essere in grado di compensare il disimpegno che potrebbe arrivare dagli Stati Uniti nel sostegno all’Ucraina, soprattutto in caso di vittoria da parte di Donald Trump.

Non a caso, sulla sicurezza si concentra molta attenzione nel rapporto. Draghi spiega che l’industria europea delle armi non dovrebbe avere restrizioni nell’accesso ai finanziamenti europei. E aggiunge che anche le fusioni dovrebbero essere autorizzate per aiutare a sviluppare il settore. Ma non è tutto: l’ex presidente del Consiglio suggerisce di liberare i fondi comuni modificando le politiche di prestito della Banca europea per gli investimenti, i contorni della finanza sostenibile, le regole ambientali, sociali e di governance, per permettere più investimenti nella difesa. Il che, di fatto, suona molto come: meglio fabbricare carri armati che investire nella sostenibilità.

Passi indietro sulla responsabilità sociale e ambientale delle imprese

Non a caso, anche sulla cosiddetta due diligence, il dovere di vigilare che è in capo alle imprese europee lungo le loro filiere per evitare che i loro business provochino danni ambientali o violazioni dei diritti, il rapporto Draghi è molto chiaro: “Il quadro europeo in materia di reporting sulla sostenibilità e di vigilanza costituisce un grande fardello”. Troppa burocrazia e troppi costi insomma. E pazienza se ci sono voluti anni per raggiungere una quadra sulle direttiva in materia, sulla pur imperfetta tassonomia europea e sulle altre norme che impongono paletti e doveri alle imprese.

Ciò nonostante, Draghi riconosce la necessità di decarbonizzare le attività economiche. E che la transizione costituisce “un’opportunità di crescita per l’industria europea“. Anche qui, però, l’ex presidente della Bce sottolinea che, per come è impostata finora, “la decarbonizzazione rischia di confliggere con la competitività e la crescita”. Il messaggio è: tutelare il clima è cosa buona e giusta, ma non deve nuocere alle imprese. E naturalmente, nella “sua” transizione non mancano il nucleare, nonostante i tempi di costruzione delle centrali siano indiscutibilmente incompatibili con gli obiettivi climatici internazionali, e la cattura e stoccaggio di CO2, nonostante sia una tecnologia ancora solo sulla carta.

emissioni di CO2
Draghi riconosce la necessità di decarbonizzare le attività economiche © Sean Gallup/Getty

La necessità di un ruolo preminente dei poteri pubblici

Per tutto ciò, secondo l’ex presidente della Bce, serviranno appunto 750-800 miliardi di euro di nuovi investimenti pubblici. All’anno. Ovvero quasi il 5 per cento del Pil europeo. Ed è probabilmente questa la critica più dura giunta da Draghi rispetto alle politiche economiche adottate finora: senza lo Stato (o meglio gli Stati, trattandosi di Unione europea) è impossibile salvarsi, dice di fatto Draghi nel suo rapporto. Non bastano i mercati, non basta l’autoregolamentazione presunta degli stessi, non bastano i capitali privati. Serve un nuovo ruolo pubblico, che piaccia o no. Altrimenti il crollo sarà certo. E servirà anche una qualche forma di solidarietà, dal momento che i Ventisette dovranno “continuare ad emettere strumenti di debito comune per finanziare progetti d’investimento comuni”.

Di fronte a tali posizioni, non stupisce che le reazioni siano state immediate. Secondo Sergey Lagodinsky, esponente dei Verdi tedeschi, il rapporto è un “atto d’accusa” contro il dogma della disciplina di bilancio. Anders Vistisen, eurodeputato danese del gruppo di estrema destra Patrioti per l’Europa, ha invece spiegato che “l’idea che massicci aiuti pubblici con denaro preso in prestito dovrebbero rappresentare la pietra angolare della ripresa dell’economia europea è follia”.

Debito e solidarietà: dalla Germania il gelo

Quanto alla questione della mutualizzazione del debito, attraverso eurobond o strumenti analoghi, non sorprende la reazione gelida giunta dalla Germania, che su questo si mostra coerentemente rigida, che a governarla sia Angela Merkel o Olaf Scholz. La proposta di un “federalismo pragmatico e ideale” avanzata da Draghi, che di fatto vuol dire accettare un principio di solidarietà e di perequazione, per la prima economia europea vuol dire rinunciare a qualcosa (per un bene comune) e fidarsi dei partner. Impensabile, ancora oggi: il deputato popolare tedesco Markus Ferber l’ha spiegato senza mezzi termini: “Draghi deve resistere al tradizionale modo di fare italiano che consiste nel domandare nuovi programmi d’investimento finanziati a debito”.

Insomma, attorno al rapporto già cominciano le polemiche politiche. Cosa verrà conservato del documento lo si saprà solo nei prossimi anni, e molto dipenderà anche dalla composizione della Commissione europea. Ma anche fosse applicato per intero, dal punto di vista di ambiente, diritti e clima il piano non sembra di certo un grande avanzamento.

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