Eurostat certifica che il reddito reale degli italiani è il più basso d’Europa, Grecia a parte.
Questo nonostante il miglioramento dei dati sull’occupazione, sbandierato dal governo, ma comunque non sufficiente.
Con gli stipendi fermi da 30 anni, il dibattito sul salario minimo è ancora aperto ma non decolla.
Se l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, allora viviamo su fondamenta ben poco stabili. E non perché in questo momento abbiamo un problema con la disoccupazione, anzi, ma perché in maniera decisamente controintuitiva insieme alla crescita degli occupati diminuisce il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Insomma: il problema non è tanto la disponibilità di lavoro, quanto la qualità del lavoro e il reddito reale.
I salari reali italiani non sono ancora ritornati al livello precedente la pandemia. L’inflazione degli ultimi anni ha causato una caduta significativa del potere d’acquisto dei lavoratori. https://t.co/M8WGDhnMBi
È la conclusione che si può trarre mettendo insieme alcuni dei più recenti report statistici nazionali e comunitari, ultimo dei quali quello di Eurostat, l’istituto di statistica dell’Unione europea, che nelle tabelle del suo ultimo social scoreboard certifica che il reddito disponibile reale, lordo, delle famiglie italiane è diminuito di oltre sei punti percentuali rispetto al 2008, l’anno che ha preceduto la grande crisi economica scatenatasi negli Stati Uniti e presto propagatasi anche in Europa. Questo nonostante la diminuzione della disoccupazione e il lieve aumento dei salari registrato nel 2023, e principalmente a causa dell‘elevata inflazione, cioè dell’aumento del costo della vita. Dei prezzi delle cose che compriamo, dall’energia al cibo passando per i vestiti e gli svaghi.
Occupazione sale, ma il problema è il reddito reale (che scende)
Secondo Eurostat, in Italia il tasso di occupazione tra i 20 e i 64 anni è aumentato dal 64,8 per cento nel 2022 al 66,3 per cento nel 2023 (+1,5 punti): dati che sostanzialmente confermano quelli di pochi giorni fa dell’Istat, e che avevano fatto esprimere soddisfazione al governo in carica guidato dalla presidente Giorgia Meloni. Dati che non sembrerebbero negativi, se letti da soli, fuori contesto, ma comunque numeri ben al di sotto della media europea, che nel frattempo è salita al 75,3 per cento. Stesso discorso per altri due dati correlati, positivi in assoluto ma sempre bassi nel confronto, impietoso, con l’Europa:
Il tasso di disoccupazione in Italia è sceso dall’8,1 per cento al 7,7 per cento (-0,4 punti), mentre la media Ue è passata dal 6,2 al 6,1 per cento.
Il numero di giovani neet (né occupati, né in formazione e che non cercano lavoro) in Italia è diminuito dal 19 al 16,1 per cento, il livello più basso dal 2009. In Europa, il dato è sceso dall’11,7 all’11,2 per cento (-0,5 punti).
Lo stesso si può dire per il rischio povertà tra le lavoratrici e i lavoratori italiani, che è sceso al 9,9 nel 2023 dal 11,5 per cento del 2022: oggi siamo al livello più basso dal 2010, ma dobbiamo ancora tornare ai livelli precedenti alla crisi del 2009. E allargando il campo anche ai non lavoratori, l’Istat a marzo, nelle stime preliminari per il 2024, certificava che nel 2023, le famiglie in povertà assoluta erano l’8,5 per cento del totale, contro l’8,3 per cento nel 2022, corrispondenti a circa 5,7 milioni di individui (9,8 per cento; quota pressoché stabile rispetto al 9,7 per cento del 2022). Insomma, c’è poco da esultare: se stiamo migliorando – e non è detto – è veramente di pochissimo.
«Sempre più lavoratori poveri serve una misura universale» Intervista alla sociologa Nunzia De Capite Luciana Cimino https://t.co/L97nzEHZDE
Per non parlare del reddito lordo disponibile delle famiglie italiane che, come adesso segnala Eurostat, è il vero tallone d’Achille: rispetto al 2008 è calato a 93,74 punti (tenendo il 2008 pari a 100 come unità di riferimento), mentre la media Ue è aumentata a 110,8. Per dirla in una frase sola: l’Europa è torna ai livelli precedenti alla grande crisi, l’Italia ancora no.Solo la Grecia, proprio il paese più colpito dalla crisi del 2009, ha fatto peggio dell’Italia, con un reddito disponibile al 72,1 per cento rispetto al 2008. La Germania, al contrario, ha visto una crescita del reddito disponibile al 112,59 per cento nel 2023.
Insomma, quello che è evidente è che il problema italiano riguarda più i salari che l’occupazione: come ha avvisato prima a livello interno l’Inapp (Istituto nazionale per le analisi delle politiche pubbliche) a dicembre 2023 e poi a livello internazionale l’Ocse (Organizzazione per la crescita e lo sviluppo economico), i salari degli italiani sono rimasti sostanzialmente invariati dagli inizi degli anni Novanta a oggi. In particolare, dal 1991 al 2022, sono aumentati appena dell’1 per cento, rispetto alla media del 32,5 per cento nell’area Ocse, mentre invece la produttività (in pratica, lo sforzo dei lavoratori), aumentava. L’Inapp (Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche) già otto mesi fa avvertiva che ci sono “forti dubbi sulla sostenibilità di questo modello nel lungo termine”.
La battaglia ancora in piedi del salario minimo
Al tempo, era già iniziata la campagna parlamentare per l’introduzione di un salario minimo orario, fissato a 9 euro (variabili, proprio in base all’inflazione), sotto il quale nessuno contrattato collettivo può scendere: una campagna che nel frattempo si è estesa fuori dalle aule parlamentari, perché è possibile firmare online per la presentazione di una proposta di legge di iniziativa popolare. Perché, posto che il problema è anche quello di alzare i livelli degli stipendi medi verso l’alto, naturalmente il problema del costo della vita pesa particolarmente sui meno abbienti.
Nell’Unione europea, 21 paesi su 27 hanno il salario minimo, che viene aggiornato in base all’aumento dell’inflazione. In Francia, per esempio, l’aumento percentuale del salario minimo nel 2015 ha comportato un aumento per l’11 per cento. Più di recente, la Germania nel 2022 ha aumentato il salario minimo orario a 12 euro, un aumento del 25 per cento rispetto all’anno precedente; mentre la Spagna nel 2023 ha aumentato nuovamente il salario minimo mensile a 1.080 euro (su 14 mensilità, 1.260 se pagato in 12 mesi), portandolo ad un aumento del 47 per cento rispetto al 2018 quando il governo di Pedro Sánchez si è insediato. L’attuale maggioranza, che ricorda spesso come “tutti i dati sull’occupazione e i salari sono migliorati da quando ci siamo noi al governo” (vero, ma come abbiamo visto in misura non sufficiente, a volte insignificante, e non vero per quanto riguarda il potere d’acquisto), sostiene che il salario minimo non sia la soluzione e che, anzi, rischia di appiattire verso il basso i salari medi, e che piuttosto bisogna affidarsi alla contrattazione collettiva, che però già copre l’87 per cento dei casi: la prova provata che la contrattazione collettiva, da sola, finora è stata un fallimento.
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