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La data del referendum costituzionale, per cosa si vota e cosa può cambiare
Il 4 dicembre si vota per il referendum costituzionale volto a porre fine al bicameralismo perfetto, cambiando la costituzione. I cinque punti principali della riforma, spiegati.
Il 4 dicembre, questa alla fine la data ufficiale decisa dal Consiglio dei ministri, si tiene il referendum costituzionale volto ad approvare o bocciare la riforma della costituzione italiana approvata ad aprile dal parlamento che porta il nome della ministra per le Riforme costituzionali Maria Elena Boschi (il ddl Boschi, appunto). La riforma è considerata fondamentale dal governo italiano tanto che Boschi e il primo ministro Matteo Renzi hanno annunciato che si dimetteranno nel caso in cui la riforma venisse respinta dagli italiani.
La riforma è divisa in cinque punti: fine del bicameralismo perfetto attraverso una modifica sostanziale del Senato; modifiche per l’elezione del presidente della Repubblica; abolizione del Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro (Cnel); riforma del titolo V della costituzione con nuova ripartizione delle competenze di alcune materie tra stato e regioni; modifica delle modalità con cui i cittadini possono richiedere l’indizione di referendum abrogativi e proporre leggi d’iniziativa popolare.
La possibilità di indire un referendum costituzionale è prevista dall’articolo 138 della costituzione stessa entro tre mesi dall’approvazione delle leggi di revisione da parte del parlamento. A differenza dei referendum abrogativi, non è necessario che venga raggiunto il quorum, cioè non è necessario che si rechi a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto. Il quesito del referendum è stato approvato dalla Corte costituzionale che ha convalidato le 500mila firme raccolte, anche se questo si sarebbe svolto comunque visto che a richiederlo sono stati anche un quinto dei parlamentari.
Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?
La riforma del senato mette fine al bicameralismo perfetto
La riforma principale del ddl Boschi prevede la fine del bicameralismo perfetto che caratterizza l’assetto istituzionale italiano dal secondo dopoguerra. Oggi le leggi devono essere approvate da entrambi i rami del parlamento, Camera dei deputati e Senato della Repubblica, per entrare in vigore. L’attuale articolo 70 stabilisce in nove parole che “la potestà legislativa è esercitata collettivamente dalle due camere”. La modifica, invece, ne aggiunge 354 e prevede che la Camera diventi l’unico ramo formato da parlamentari eletti dagli italiani, l’unico che approva le leggi ordinarie e legate al bilancio statale, l’unico a dare o togliere la fiducia al governo.
Il Senato diventa il Senato delle regioni, ovvero l’organo rappresentativo delle autonomie regionali che può esprimere emendamenti e pareri sui progetti di legge approvati dalla Camera, ma con la possibilità che non vengano accolti. La sua funzione diventa di coordinamento tra lo stato e gli enti locali.
I senatori passano da 315 a 100 e non sono più eletti direttamente. Di questi cento, 95 vengono scelti dai consigli regionali (21 sindaci e 74 consiglieri regionali) in modo proporzionale e rimangono in carica per tutta la durata del loro mandato da amministratori locali e percepiscono solo lo stipendio regionale o da sindaco. I restanti cinque senatori vengono nominati dal presidente della Repubblica per una durata di sette anni. Rimangono senatori a vita solo gli ex capi di stato.
Come cambia il titolo V della costituzione e la ripartizione delle competenze tra stato e regioni
La riforma della ministra Boschi prevede anche una riduzione del numero di materie per cercare di fare chiarezza sui ruoli e sulle competenze (esclusive o concorrenti) di stato, regioni e autonomie locali. La riforma prevede che una ventina di materie tornino a essere gestite in modo esclusivo dallo stato. Tra queste anche l’ambiente, la produzione e la distribuzione dell’energia, la sicurezza sul lavoro e gli ordinamenti professionali. Il titolo V era già stato modificato nel 2001 anche se in modo poco chiaro, secondo molti addetti ai lavori.
Come si elegge il presidente della Repubblica dopo la riforma
L’elezione del presidente della Repubblica sarà in capo alle due camere in seduta comune, ma visto che il Senato è già delle regioni, non è più prevista la partecipazione dei delegati regionali. Il presidente deve essere eletto dai due terzi dei parlamentari, fino al quarto scrutinio. Dopodiché è sufficiente la maggioranza dei tre quinti.
L’abolizione del Cnel
La riforma prevede l’abolizione del Consiglio nazionale per l’economia e il lavoro. Il Cnel è un organo ausiliario composto da 64 consiglieri previsto dalla costituzione. La sua funzione è consultiva e di iniziativa legislativa ma, come suggerisce il nome, solo per quanto riguarda le leggi economiche e sul lavoro.
Referendum abrogativo e leggi d’iniziativa popolare
La riforma vuole che ci siano due tipi di quorum per i referendum abrogativi. La consultazione è valida se va a votare il 50 per cento più uno degli aventi diritto se a richiedere la consultazione sono state 500mila persone. La novità consiste nel fatto che il quorum scende al 50 per cento più uno di chi è andato a votare alle ultime elezioni politiche nel caso in cui a proporre il referendum siano state 800mila persone. Infine, per proporre al parlamento una legge d’iniziativa popolare non servono più 50mila firme, bensì 150mila.
Le ragioni del sì e le ragioni del no
Per approfondire la questione prosegui la lettura per capire quali sono le ragioni del sì, tra fine del bicameralismo perfetto, abbattimento dei costi della politica, adozione di leggi più rapide e partecipazione dei cittadini. E le ragioni del no, tra minor rappresentatività, regioni svuotate dei poteri e rischio di un eccessivo accentramento dei poteri intorno alla figura del primo ministro, a scapito della democrazia.
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