Grazie alle nuove tecnologie, Atelier Riforma ha creato un marketplace B2B per far incontrare domanda e offerta di abiti usati. La moda circolare è tech.
Regenesi crea bellezza dai rifiuti, così un’imprenditrice italiana vuole trasformare la moda e il design
Da oltre un decennio Regenesi dona nuova vita ai materiali post-consumo realizzando oggetti di design e accessori moda. La fondatrice Maria Silvia Piazzi ci racconta la sua storia.
A meno di 40 anni è diventata imprenditrice e lo ha fatto nell’ambito della green economy. Maria Silvia Pazzi aveva tutte le carte in regola per far parlare di sé nel 2008, quando ha fondato Regenesi, l’azienda bolognese che trasforma materiali di riciclo post-consumo e scarti industriali in oggetti di moda e design di alta gamma.
Dal design alla moda nel segno della sostenibilità
Alluminio, pelle, tessuti, plastica, cartone, gomma: nulla si butta, tutto si rigenera. Così le lattine diventano piatti o ciotole, le tute dei piloti della Moto Gp si trasformano in portafogli o cinture, e la plastica si reincarna in collane e bracciali. Il tutto lavorato in maniera naturale e sostenibile. Inoltre, “negli anni sono nati bellissimi lavori a quattro mani”, racconta Pazzi: l’azienda infatti ha all’attivo diverse collaborazioni, come quella con Dainese, il marchio di abbigliamento per motociclisti, o con Lamborghini, che hanno ceduto i propri scarti utilizzati poi per realizzare oggetti unici.
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In undici anni l’azienda ha fatto molti passi avanti: prima focalizzata solo sul design – avvalendosi di collaborazioni con designer di fama internazionale come Denis Santachiara, Setsu & Shinobu Ito, Giulio Iacchetti e Matali Crasset, per menzionarne solo alcuni –, ha poi aperto gli orizzonti anche al mercato della moda sostenibile. Con il contributo di Annalisa Caricato, stilista esperta nel settore della pelle che ha lavorato con i più grandi marchi (tra cui Tod’s, Ferragamo e Ungaro), nel 2016 Regenesi ha lanciato la File bag, una borsa interamente realizzata con scarti di pelle rigenerata. “Volevamo fare economia circolare”, afferma Pazzi, che ha messo in pratica un progetto maturato negli anni dopo un viaggio a Napoli, all’epoca sommersa dai rifiuti. E allora perché non trasformarli in bellezza?
Una volta ha detto che “la green economy sta creando opportunità e mercato che possono portare benefici a tutti”. Cosa intendeva?
Fino a qualche anno fa chi faceva questi progetti era visto come l’imprenditore illuminato che aveva una sua personale sensibilità nei confronti di determinati temi. Adesso invece si è visto che la sostenibilità porta maggiore produttività, efficienza, diminuzione dei costi e apre nuove fette di mercato. È business, non buonismo. È importante poi fare sistema e le istituzioni sono fondamentali nel dare supporto. Ci deve essere collaborazione tra le aziende, perché spesso queste cose sono un win-win, si creano più occasioni. Dal punto di vista dell’individuo, c’è sia grande attenzione – che è cresciuta molto negli anni – ma anche tanta ignoranza, intesa come non conoscenza. Per esempio, riciclo, recupero e riuso sono mondi molto diversi tra loro, eppure spesso vengono confusi.
Come hanno contribuito la sostenibilità e il made in Italy all’evoluzione della sua azienda?
Quando è nata Regenesi, la sostenibilità e il made in Italy l’hanno portata subito all’estero: in Francia, Germania, Inghilterra. Abbiamo venduto anche in mercati che non erano così sensibili nei confronti della sostenibilità ma che avevano scelto i nostri prodotti per lo stile, per la qualità, per la flessibilità nell’assecondare le esigenze. All’estero si dà molto più peso al made in Italy, noi italiani lo diamo per scontato, lo percepiamo meno. Ora in tanti parlano di sostenibilità, è di tendenza, ma bisogna capire che è un’esigenza, non una moda. Viviamo in un’economia circolare ma spesso non ne siamo consapevoli.
we often talk about #CircularEconomy but it isn’t easy to know concrete cases of application in a #business environment. Today we shed light on some of these, thanks to the contribution of #Retrace, a project that has mapped 65 good practices in #Europe https://t.co/aKRt5bIzLc pic.twitter.com/BbJkYBqa8s — Regenesi (@Regenesi_com) June 18, 2019
Regenesi coinvolge molto anche altre realtà nella produzione del singolo oggetto. Perché la scelta di una filiera lunga rispetto a una corta?
Innanzitutto, ogni cosa che facciamo è made in Italy, perché per noi è imprescindibile non solo la qualità ma anche la sostenibilità. In quest’ottica i prodotti devono fare pochi chilometri. Poi perché lavoriamo ogni volta materiali diversi, facendo prodotti diversi, dunque non potremmo avere una tecnologia nostra interna, saremmo troppo vincolati. Regenesi è un’organizzazione a rete, il nostro modello ci porta a lavorare per progetti come un’azienda di servizio. Questo a livello di comunicazione è molto forte e immediato.
Qual è la considerazione che viene data alla sostenibilità da parte dei consumatori, a dispetto di estetica e fama del marchio?
Tutti gli studi esprimono un cambiamento enorme nel valore che si dà alla sostenibilità. Ho l’impressione che in Italia ci sia l’intenzione, ma che non sempre questa si traduca in atto concreto. All’estero sembra esserci più attenzione nei confronti di questi temi. Un’altra cosa da tenere in considerazione è l’età: i giovanissimi sono sensibili al tema – se ci pensiamo Greta Thunberg ha 16 anni – però non hanno la capacità di acquisto.
Progetti in cantiere?
Tanti, ma posso svelarne solo uno. La nostra collaborazione con Dainese è nata tanti anni fa e ha visto in questi anni un ampliamento della collezione. In questo momento sono 15 i pezzi che realizziamo e a settembre ne lanceremo due ulteriori. L’approccio è sempre quello di partire dalle tute dei piloti delle moto, quindi è un recupero – anzi un restauro a volte. Sono pezzi unici.
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