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Made in Bangladesh. La verità sull’impatto ambientale e sociale delle concerie bengalesi
Un viaggio alla scoperta delle concerie di Dacca, in Bangladesh, tra condizioni di lavoro infernali, inquinamento e leggi inapplicate.
Quando il governo bengalese, nell’aprile del 2017, sotto la pressione internazionale ha obbligato più di 150 concerie a trasferirsi da Hazaribagh, un quartiere nella parte antica della capitale Dacca, in una nuova area fuori città nel distretto di Savar, in molti erano convinti che le cose sarebbero cambiate. Nonostante le promesse e le premesse, le concerie bengalesi che preparano il cuoio con il quale vengono prodotte scarpe, cinture, portafogli e borse, poi vendute in tutto il mondo, anche da grandi marchi, seguitano a scaricare sostanze tossiche nel fiume Dhaleshwari. Prosegue lo sfruttamento della manodopera minorile e gli operai continuano ad essere sottopagati e a lavorare in pessime condizioni di sicurezza, con conseguenze sulla loro salute.
Si potrebbe dire che sia cambiata solo la posizione geografica, il nome – divenuto Savar leather industrial park – e il fiume da contaminare. Un corso d’acqua che, nell’intricata rete fluviale della regione, è comunque direttamente collegato al fiume Buriganga, quello che passa per Dacca e che veniva inquinato con 22mila litri cubi di rifiuti tossici al giorno.
Il quartiere di Hazaribagh, dove si trovavano le concerie
Nell’area ristretta di Hazaribagh erano concentrate quasi 200 concerie, che garantivano il 95 per cento della produzione di cuoio bengalese. Non c’era alcun impianto di smaltimento dei rifiuti tossici, liquidi e solidi, derivanti dal processo di concia. I residui venivano quindi direttamente sversati nel fiume, fonte di acqua potabile per più di 180mila persone e ora avvelenato per sempre. Nel 2013 il quartiere era stato classificato come il quinto luogo più inquinato al mondo dai ricercatori della Green cross international e del Blacksmith institute.
Le persone che ci lavoravano, circa 15mila, e la popolazione che viveva nei dintorni erano continuamente esposte a sostanze chimiche in un ambiente insalubre ed estremamente pericoloso nell’indifferenza delle autorità bengalesi, come venne denunciato a più riprese da ambientalisti e organizzazioni per i diritti umani come Human rights watch. Nel 2003 si iniziò a pensare ad un ricollocamento che venne più volte rinviato fino all’anno scorso, quando il governo di Dacca ha predisposto il “green” Savar tannery park a Hemayatpur.
Il Savar leather industrial park, dove sono state trasferite le concerie
All’arrivo, dopo due ore e mezza di autobus dal centro della capitale bengalese, si nota immediatamente che l’area industriale è piuttosto isolata e incompleta. Mancano le infrastrutture di base, come strade, canali fognari e sistemi antincendio, mentre le nuove concerie non sono altro che edifici in blocchi di cemento con i piani superiori non ancora ultimati. Lungo le strade polverose passano carretti carichi di cumuli di pelli di colore azzurro con sopra abbarbicati uomini barbuti in ciabatte e a torso nudo. Madidi di sudore gli operai cercano di ripararsi dal sole cocente indossando il tipico topi bengalese.
L’aria calda è resa irrespirabile da un odore forte, pungente e penetrante. Una miscela di putrefazione e sostanze chimiche, che diventa sempre più intensa avvicinandosi ad uno degli edifici. All’interno della Siful Islam tannery il caldo è infernale e la luce scarseggia. In un labirinto di sacchi pieni di prodotti chimici e cataste di pelli pronte ad iniziare la concia, giovani ragazzi intagliano e preparano il pellame. A pochi metri dal gruppo si ergono grosse vasche sormontate da enormi bottali in legno. Il fetore è quasi insopportabile e i vapori bruciano gli occhi. Gruppi di operai senza alcuna protezione maneggiano le pelli immergendole nelle vasche e poi infilandole nei macchinari.
Le condizioni dei lavoratori
Sumon, 38 anni, si è trasferito qui da Hazaribagh: “La situazione della fabbrica è leggermente migliore, ma abbiamo ancora molti problemi di salute e lavoriamo come se fossimo in una giungla. Non ci sono alloggi, è difficile comprare il cibo e se ti fai male, come capita spesso, non ci sono strutture ospedaliere vicine. Ad Hazaribagh, almeno, queste cose si trovavano in qualche modo”.
I conciatori bengalesi lavorano in media dieci ore al giorno in queste condizioni, per un salario medio che si aggira attorno ai 136 euro al mese. Il contatto diretto con agenti chimici avviene lungo tutte le fasi del procedimento di concia e provoca danni alla salute a breve e a lungo termine. Gli operai dicono di soffrire spesso di patologie cutanee e respiratorie. Sostengono anche di avere forti mal di testa e mancamenti, oltre a frequenti attacchi di diarrea. Le sostanze con cui vengono maggiormente a contatto sono l’acido solforico, il piombo e il cromo. Gli stessi elementi erano stati rilevati in grosse quantità nel fiume Buriganga.
A tutto ciò, per completare il quadro, vanno aggiunti i frequenti incidenti sul posto di lavoro che portano spesso all’amputazione degli arti. Abul Kalam Azad, presidente del sindacato Tannery workers union, si lamenta: “Siamo frustrati dalla situazione. Il governo ci aveva fatto delle promesse. Dicevano che avrebbero reso disponibili ospedali, alloggi per i lavoratori e anche che i salari sarebbero stati adeguati. Ma non hanno rispettato gli impegni presi”.
Di fronte ad un grosso portale laterale della conceria altri operai svuotano una vasca dai rifiuti solidi con delle pale. La sostanza gelatinosa che varia dal bianco all’azzurro è composta da grasso animale, peli e scarti chimici del processo di concia ed è chiamata wet blue. Dei cassoni ricolmi del composto sono trasportati all’esterno verso un grande spiazzo all’aperto dove vengono gettati. La “discarica” si trova a pochi metri dal fiume e non ha alcuna protezione per evitare lo sversamento.
L’inquinamento del fiume
“C’è molto inquinamento qui”. Il giovane Abdul Goni sorride sudato e si avvicina incuriosito. Poi spiega: “Io sono della zona e ho trovato lavoro qui quando le concerie si sono spostate. Mi sono accorto che il fiume sta cambiando da un anno a questa parte. Soprattutto il colore dell’acqua. Avviene perché si scarica qui”. Abdul si avvicina alla sponda del fiume e mostra due grosse tubature di cemento da cui fuoriescono delle acque nere che a contatto con il fango, ormai grigio, formano una schiuma bianco-giallastra che si sparge lungo il corso d’acqua, fra le piante galleggianti.
“La nuova area industriale dovrebbe usufruire dell’impianto di depurazione Common effluent treatment plant (Cetp) che però non sta funzionando correttamente. Al momento viene inquinato un corso d’acqua con effetti su un numero indeterminato di persone. Migliaia, forse milioni”, afferma Abu Naser Khan, presidente dell’ong ambientalista Save the environment movement (Poba), che aggiunge: “Anche se funzionasse potrebbe non essere adeguato per trattare gli scarti di tutte le concerie, specie durante la festa del sacrificio Id al-adha che rappresenta il picco di produzione annuale”.
Di chi è la responsabilità
La sottovalutazione dei problemi ambientali e dei diritti dei lavoratori e il lassismo del governo bengalese, che non fa rispettare le leggi esistenti, rappresentano le cause principali di tutto questo. Tuttavia, le responsabilità non sono solo delle autorità e dei proprietari delle concerie: indirettamente lo è tutta la filiera che arriva in Nordamerica, Cina ed Europa, fino a noi. I grandi brand, anche italiani, che si riforniscono da produttori affiliati a queste concerie “dovrebbero essere più attenti ed esercitare la loro pressione come anche i consumatori finali”, ribadisce l’ambientalista Naser Khan.
Un trasferimento che non ha giovato all’economia del Bangladesh
Va detto inoltre che il trasferimento non sembra aver fatto bene al settore come dimostrano le numerose chiusure fra le concerie e gli ultimi dati economici sulle esportazioni che sono in netta picchiata. L’ultimo rapporto pubblicato dall’Export promotion bureau (Epb) mostra che le esportazioni sono calate del 17,50 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente con guadagno di 268 milioni di dollari contro i 325 del passato. La crisi è principalmente dovuta alla minor produzione. Delle 155 concerie che si sono trasferite a Savar, solo 125 sono in funzione e di queste solo 25 lavorano a pieno potenziale. Lo spostamento ha fortemente indebitato i proprietari che ora ripartono lentamente. Il governo è preoccupato per uno dei suoi settori più importanti che contribuisce a quasi il 4 per cento del prodotto interno lordo.
Qual è il vero motivo del trasferimento?
Ciononostante sono molti a ipotizzare che il trasferimento delle concerie sia stato utilizzato dalle lobby del pellame bengalesi, molto legate a membri delle istituzioni, come mezzo per condurre al fallimento le concerie più piccole, troppo deboli e impossibilitate a ottenere prestiti per concludere lo spostamento, creando così un oligopolio con cui controllare meglio il settore. “Questa è una grande minaccia per i lavoratori e per l’ambiente”, afferma preoccupato il sindacalista Kalam Azad, che prosegue: “Se la situazione non cambierà, verrà gestito tutto da pochi potenti che detteranno le regole prevalendo sui sindacati che avranno meno capacità contrattuale”. Anche lo stesso governo di Dacca potrebbe poi perdere forza in un settore importante per l’economia a vantaggio di una lobby resa ormai troppo potente, come già avvenuto in altri parti del mondo.
A rischio è lo strato più povero della popolazione
In ogni caso alcuni strumenti per prevenire questo scenario ci sarebbero e, al di là della possibile premeditazione, come conclude Naser Khan “ciò che manca al Bangladesh è la volontà politica di voler seriamente applicare la legge rispettando la popolazione e il nostro ecosistema”. E nonostante le conseguenze della guerra commerciale tra Pechino e Washington pongano l’esecutivo di Dacca nella difficile condizione di dover mediare tra la necessità di vendita di un settore colpito dal calo della domanda cinese e la pressione esterna su inquinamento e diritti, sembra ormai chiaro che a farne le spese saranno i lavoratori e gli allevatori. Ovvero lo strato più povero della popolazione.
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