“C’è sempre luce, se siamo abbastanza coraggiosi da vederla”. Chi è Amanda Gorman, la giovane poetessa afroamericana che all’inauguration day ha conquistato tutti.
Cronache di una città deserta: per le strade di Washington durante l’insediamento di Joe Biden
Next stop Washington: un reportage dalla capitale degli Stati Uniti nel giorno della cerimonia di insediamento del nuovo presidente Joe Biden.
“Next stop Washington D.C., Union station”. Sono le 9:30 del 20 gennaio 2021, da New York mi sono spostata nella capitale per seguire l’inaugurazione della presidenza di Joe Biden.
Appena arrivo in stazione, mi accoglie un’atmosfera surreale. Poche decine di persone scendono dal mio stesso treno Amtrak che pure ha attraversato un buon tratto della costa est degli Usa. Militari e forze di polizia segnano il percorso verso la sala d’attesa della stazione, enorme ma deserta, circondata da negozi e ristoranti con le saracinesche abbassate.
All’uscita di Union station si intravede subito la cupola di Capitol hill, la sede del Congresso americano, l’edificio che il 6 gennaio è stato preso d’assalto dai sostenitori dell’ormai ex presidente Donald Trump. Anche per questo, oggi, Washington è blindata. Il centro storico, dal Lincoln memorial alla Casa Bianca, è inaccessibile e chiuso da transenne e filo spinato. 25mila soldati controllano il perimetro di sicurezza e regolano gli ingressi nei pochi check-point disponibili, facendo passare soltanto mezzi autorizzati.
Quello che più colpisce, però, non sono i fucili imbracciati dalla Guardia nazionale o i mezzi militari fermi nel pieno centro della “più grande democrazia del mondo” (a cui d’altra parte ero preparata dopo aver visto le immagini su tutti i giornali). Resto invece incredula davanti all’atmosfera cupa che si respira per le strade della capitale, una città ancora ferita dalle violenze di poche settimane prima e da quattro anni che hanno frantumato il paese. Tra le ampie arterie del centro non c’è anima viva. I negozi sono sbarrati, le vetrine coperte da pannelli in legno come precauzione in caso di ulteriori violenze, e anche molti ristoranti, già costretti ad operare solo tramite asporto o consegne a causa della pandemia, hanno preferito rimanere chiusi.
Avevo già visitato Washington quattro anni fa, nel 2016. La ricordavo come una città istituzionale, rigorosa, ma comunque carica di vita e fiera dei suoi tanti monumenti, costantemente invasi dai turisti. Quest’anno, invece, è svuotata. Quando entro da Starbucks, nei pressi della Casa Bianca, ad accogliermi trovo un folto gruppo di poliziotti in pausa caffè. “Abbiamo avuto moltissima gente questa mattina”, mi spiega la barista, che però annuisce quando le faccio notare che il locale è uno dei pochi rimasti aperti nella zona.
Guardando le immagini delle ultime inaugurazioni presidenziali, da Obama a Trump, la differenza con la situazione attuale è disarmante. Se prima milioni di cittadini attraversavano il paese per arrivare a Washington, quest’anno poche centinaia di persone possono assistere alla cerimonia, ridimensionata non solo per salvaguardare la sicurezza, ma anche a causa della pandemia di Covid-19 che continua a far registrare migliaia di contagi ogni giorno. In città si aggirano solo i giornalisti. I cittadini non osano uscire.
Il giuramento di Biden e Harris
Joe Biden diventa il 46esimo presidente degli Stati Uniti alle 12:00 in punto, anche se ha concluso il giuramento con una decina di minuti di anticipo. Ha giurato con la mano sulla Bibbia dall’ala ovest del Congresso, davanti a pochi testimoni. Prima di lui è stato il turno di Kamala Harris, già entrata nella storia come prima vicepresidente donna.
Mentre sul palco si alternano Lady Gaga e Jennifer Lopez, la città resta immersa in un silenzio inimmaginabile. Solo davanti al Congresso trovo un po’ di movimento, in larga parte causato da una folta schiera di reporter e da una piccola manifestazione antiabortista e antifemminista, il cui principale rappresentante urla nel suo megafono: “Mi sta bene che Kamala Harris sia alla Casa Bianca, ma solo se rimane nelle cucine”. A ricordare che, anche se sono stati fatti passi avanti, la strada da percorrere è ancora lunga.
“Kamala è la nostra prima vicepresidente donna. Sono imparentata con Susan B. Anthony, che ha lottato tutta la vita per assicurare alle donne il diritto di voto”, mi dice invece Debby Anthony, una tra i pochi manifestanti che incontro, con in mano due cartelli per festeggiare il cambio di amministrazione. “Sono qui per lei, per Kamala, che oggi vede finalmente i frutti del lavoro di tutta una vita”. “Sarà lei a giurare come presidente, tra quattro anni?”, le chiedo. “Sarebbe fantastica per quel ruolo”.
Una volta finita la cerimonia, l’area antistante Capitol hill comincia a svuotarsi mentre Biden e Harris, con le rispettive famiglie, si spostano verso la Casa Bianca. Vedo anche qualche pullman pieno di forze dell’ordine ripartire, forse tirando un sospiro di sollievo per gli scontri che non si sono materializzati.
Le sfide per la nuova amministrazione
Donald e Melania Trump hanno lasciato la Casa Bianca la mattina del 20 gennaio, direzione Florida, senza troppe cerimonie: d’altra parte, da ormai due settimane l’eredità politica dell’ex presidente si sgretola ogni giorno di più, in seguito al terribile attacco al Congresso da lui istigato e supportato.
Per Biden, non c’è tempo da perdere. Già nelle prime ore del suo mandato il nuovo presidente intende ribaltare alcune decisioni della passata amministrazione riportando, ad esempio, gli Stati Uniti all’interno dell’Accordo sul clima di Parigi o imponendo l’obbligo di mascherina a livello federale.
Il suo piano da 1.900 miliardi di dollari (circa 1.550 miliardi di euro) intende poi risanare l’economia americana, messa in ginocchio da quello che Trump anche nel suo ultimo discorso come presidente non ha perso l’occasione di definire “il virus cinese”, e combattere finalmente la pandemia ascoltando la scienza e non il vento dei sondaggi.
Un’altra riforma importante sarà quella sull’immigrazione: Biden ha promesso infatti di semplificare le procedure di accoglienza per i “dreamers” – le persone arrivate negli Stati Uniti da minorenni ma che ancora, dopo anni, non hanno ottenuto documenti ufficiali – e di facilitare così l’ottenimento della cittadinanza americana per 11 milioni di persone.
L’apertura verso politiche migratorie più permissive è vista come un faro di speranza per molti migranti, tanto che fin da prima del suo insediamento ufficiale una carovana di 9mila persone è partita dall’Honduras per raggiungere il confine americano. Il gruppo è però stato bloccato dalle forze dell’ordine guatemalteche.
E ora?
Nei suoi quattro anni alla Casa Bianca, Donald Trump non ha avuto riguardo per i taciti accordi che da decenni segnavano il corso della politica americana. Il tycoon lascia Washington con ben pochi alleati e pieno di debiti, portando con sé il peso di 400mila morti e il non invidiabile primato di unico presidente ad essere stato messo sotto impeachment per ben due volte.
Al di là della politica, Trump lascia una società divisa e ostile, immersa in lotte intestine che vanno ben oltre le linee di partito: i diritti delle minoranze, le disuguaglianze razziali, il ruolo delle forze dell’ordine sono stati trasformati in armi da sfruttare non tanto per prendere nuovi voti, quanto per rafforzare l’esercito di sostenitori più accaniti del trumpismo, molti dei quali si sono riuniti a Washington lo scorso 6 gennaio.
Non a caso il discorso inaugurale di Joe Biden ha fatto perno su un unico tema: “Per superare queste sfide, ripristinare l’anima e assicurare un futuro all’America, serve qualcosa che va al di là delle parole. Serve l’elemento più sfuggente di tutti in una democrazia: unità. Unità”.
Unità nazionale, ecco forse cosa mancava nelle strade di Washington il 20 gennaio 2021.
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