Il pappagallo amazzone nucagialla è una specie a rischio, al centro del traffico illegale di volatili. Un business da miliardi di euro che si scontra tra diritti umani e della natura.
Rewilding Apennines. È ora che la natura riprenda i suoi spazi anche oltre i confini protetti
Siamo stati al seminario organizzato da Rewilding Apennines in Abruzzo per cercare di capire qual è lo stato del rewilding in Italia e quali sono le prospettive future. Ecco cosa è emerso.
In un mondo che sembra prossimo al collasso ecologico, in cui è in corso la sesta estinzione di massa della storia del pianeta, il rewilding è una promessa di speranza. La speranza di un mondo nuovamente selvatico, interconnesso, ricco di fauna e di relazioni sottili. Un mondo in cui condividere sentieri con altre specie, un mondo più vivo ed eccitante, senza più noia ecologica, nel quale un fruscio nel sottobosco o un verso che riecheggia nella valle possano solleticare il nostro rinencefalo e portarci bruscamente indietro di migliaia di anni. Delle iniziative di rewilding realizzate in Italia, con uno sguardo particolarmente rivolto al futuro, si è parlato in occasione del seminario Rewilding in Italia. Stato dell’arte e prospettive future, organizzato da Rewilding Apennines, associazione che collabora con i componenti italiani dell’European Rewilding Network per promuovere questo movimento nel nostro Paese, in occasione dei dieci anni dalla sua fondazione.
Lasciare che la natura trovi la sua strada
Ma cosa significa, esattamente rewilding, e qual è il suo obiettivo? “Rewilding è una parola di fatto intraducibile in italiano”, ha affermato durante il seminario Bruno D’Amicis, fotografo naturalista di fama internazionale e vicepresidente di Rewilding Apennines. “I termini utilizzati, come ‘ripristino’ o ‘riqualificazione’ prevedono una determinazione da parte dell’uomo, è quasi un ossimoro. La parola ‘wild’ viene infatti da willed participio passato di will che significa ‘volere’”. Quello che caratterizza il rewilding, infatti, è l’approccio progressista alla conservazione che mira a ripristinare, tramite ad esempio la reintroduzione di specie animali e vegetali, i processi ecologici in modo che la natura e gli ecosistemi possano essere autonomi nel loro funzionamento. L’obiettivo è di permettere alla natura, non più governata dalla gestione umana ma dai propri processi, di autodeterminarsi e trovare la propria strada.
“La habitat restoration ha un’idea chiara del risultato da raggiungere e mira a recuperare un ecosistema degradato, attraverso una gestione quasi ingegneristica. Il rewilding promuove invece l’auto-riorganizzazione degli ambienti danneggiati con il minimo intervento. L’obiettivo non è quello di recuperare l’immagine statica di un paesaggio, che esiste forse solo nella nostra mente, quanto contribuire alla rinascita di un ecosistema che si regoli autonomamente”.
Rewilding Apennines, natura senza confini
Il sogno di Rewilding Apennines è di vedere la natura espandersi oltre i confini del parco e favorire la connessione con le aree circostanti per consentire lo spostamento della fauna. Non si nega o rinnega l’importanza e l’inestimabile ruolo che parchi e aree protette hanno avuto nella conservazione (senza i parchi non avremmo più, solo per fare qualche esempio noto, l’orso bruno marsicano, il camoscio appenninico o lo stambecco). Non possono però restare isole di conservazione in un ambiente sempre più antropizzato e frammentato. È arrivato il momento che la natura riprenda i suoi spazi anche oltre i confini protetti. Per questo il team di Rewilding Apennines, giovane, competente e mosso da grande entusiasmo, lavora ai margini delle aree protette d’Abruzzo, cercando di mitigare il conflitto tra uomo e fauna. “Da circa cinque anni Rewilding Apennines, tramite la sua dimensione locale e operativa cerca di offrire soluzioni e opportunità”, afferma Mario Cipollone, team leader di Rewilding Apennines. “Rivestiamo il ruolo di ambasciatori di specie animali che sono spesso fonte di conflitto. La biodiversità è però un patrimonio collettivo che va tutelato”.
Il rewilding guarda avanti
L’obiettivo del rewilding è la rinaturalizzazione dell’Europa e il ritorno della sua grande fauna, ma non è un movimento che guarda al passato. Mentre l’ambientalismo tradizionale guarda spesso indietro con nostalgia, il rewilding guarda al futuro. “Il rewilding in Appennino centrale non è un ritorno al passato: è al contrario la ricerca di strade nuove per le comunità locali che vogliono vivere nella contemporaneità“, spiegato Antonio Carrara, presidente di Rewilding Apennines e sindaco di Pettorano sul Gizio. “Oggi assistiamo a un fenomeno nuovo: la centralità della natura non riguarda più solo le aree protette. Il rewilding rappresenta una sfida per costruire un rapporto equilibrato con la natura e con la fauna”.
Dobbiamo essere ambiziosi
Il seminario, svoltosi dal 3 al 5 novembre a Gioia dei Marsi (AQ), ha registrato una notevole partecipazione, a testimonianza di quanto il tema della tutela della biodiversità sia sentito, da addetti ai lavori e non solo. Tra i presenti anche molti giovani, cui era stato dedicato un apposito spazio per presentare il proprio poster basato su ricerche o studi inerenti al rewilding. L’evento ha indubbiamente contribuito a rafforzare la rete che unisce tutti coloro i quali si occupano di fauna, ripristino degli ecosistemi e coesistenza. Tuttavia, ha anche talvolta messo in evidenza una sorta di contrapposizione tra due visioni della conservazione. Da un lato quella tradizionale e conservatrice, che mira, appunto, a proteggere il patrimonio naturale rimasto, dall’altra c’è la visione progressista e ambiziosa del rewilding, che non si accontenta della natura depauperata che è giunta ai giorni nostri, che sogna una primavera selvaggia e che non si concentra sulle singole specie, quanto sui processi ecologici che regolano gli ecosistemi. “Una volta che l’ecosistema funziona, non c’è un punto definito e prestabilito dall’uomo che prescrive come esso deve essere”, ha detto Giulia Testa, coordinatrice di European Young Rewilders di Rewilding Europe. Testa ha, in particolare, messo l’accento sulla necessità di porsi obiettivi ambiziosi, a cominciare dal regolamento sul ripristino della natura nell’ambito della strategia dell’Ue sulla biodiversità per il 2030, che fa parte del Green Deal europeo.
“È una legge estremamente indebolita rispetto alla proposta originale: molti obiettivi sono stati rimossi o ridotti. Dobbiamo fare pressione per spingere l’Italia a presentare un ambizioso piano nazionale di ripristino. È da quando ero piccola che mi sento ripetere che le specie si stanno estinguendo e che dobbiamo conservarle. Soffriamo però tantissimo della cosiddetta shifting baseline syndrome, prendiamo cioè come punto di riferimento punti nel tempo vicini a noi, nei quali gli ecosistemi erano già gravemente impoveriti. Significa che spesso abbiamo degli standard molto bassi. Dobbiamo invece avere l’ambizione di puntare più in alto, e il rewilding può essere una soluzione, proprio perché guarda al sistema prima che alle componenti”.
Un territorio a misura d’orso
Tra i protagonisti indiscussi della tre giorni, che ha visto l’intervento di vari esperti della conservazione, provenienti da aree protette, organizzazioni no profit, fondazioni ed enti di ricerca, c’è stato l’orso bruno marsicano (Ursus arctos marsicanus), totem vivente di questi luoghi. L’espansione di questa rara e minacciata sottospecie di orso bruno, che rappresenta un endemismo esclusivo dell’Italia centrale, è ostacolata in particolar modo dalle infrastrutture umane che ne frammentano l’habitat esponendo gli orsi a diversi pericoli. Per cercare di invertire questa tendenza è stato avviato il progetto Life Bear-Smart Corridors. L’iniziativa, co-finanziata dall’Ue, si volge in Italia e Grecia e mira a favorire l’espansione della popolazione di orso bruno marsicano in Italia centrale e di orso bruno in Grecia attraverso lo sviluppo di “corridoi di coesistenza”. L’obiettivo è creare corridoi in grado di collegare le aree protette della regione, per consentire agli orsi di espandersi verso nuove aree.
All’interno dei “corridoi di coesistenza” le comunità locali impareranno a vivere accanto all’orso adottando un modello importato dal Canada, quello delle Bear Smart Community, o Comunità a misura d’orso. Tale modello, ha spiegato Annette Mertens, project manager di Life Bear-Smart Corridors, “incoraggia la cooperazione tra le comunità locali, le aziende e gli individui per prevenire i conflitti tra gli orsi e gli esseri umani e favorire la pacifica convivenza nei territori vitali per entrambi”. Questa iniziativa, già sperimentata con successo in Canada, dove la densità di orsi è maggiore, mira a prevenire, attraverso azioni specifiche (eliminando ad esempio fonti di cibo che possano attirare plantigradi nei paesi e installando cassonetti a prova d’orso), i conflitti tra gli orsi e gli esseri umani. Pettorano sul Gizio, piccolo comune della provincia dell’Aquila, è la prima comunità a misura d’orso d’Italia. Qui si trova la Riserva naturale regionale Monte Genzana Alto Gizio, la riserva naturale più grande d’Abruzzo, situata tra il Parco nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise e il Parco nazionale della Majella.
(Re)imparare a coesistere
Tra i temi centrali del seminario, c’è stato quello della coesistenza. “Non ci può essere impermeabilità tra le nostre vite e la natura in cui siamo immersi. Serve un rapporto più sano ed equilibrato con l’ambiente e gli animali”, ha affermato Antonio Di Croce, direttore della Riserva naturale regionale Monte Genzana Alto Gizio. “L’uccisione di un orso nel 2014 a Pettorano sul Gizio fu l’evento che fece prendere consapevolezza e che portò alla nascita della prima comunità a misura d’orso d’Italia”, ha detto Fabrizio Cordischi, Field Operations Manager di Rewilding Apennines. Da allora, grazie al prezioso lavoro dell’associazione Salviamo l’Orso, da anni impegnata concretamente nella tutela dell’orso, sono stati installati numerosi recinti elettrificati, per ridurre i conflitti tra plantigradi e comunità locali. La strada per la coesistenza sembra però ancora in salita. “La cattiva cura che molti allevatori hanno dei recinti rappresenta un freno”, ha spiegato Cordischi. “Se non adeguatamente mantenuti i recinti possono smettere di funzionare, creando sfiducia nella misura da parte degli allevatori e riducendo l’effetto psicologico che questo deterrente esercita sugli orsi”.
Il livello di accettazione dell’orso varia però dalle zone e dal contesto. “Se la presenza dell’orso è storica e consolidata c’è maggiore tolleranza”, ha affermato Paola Morini, biologa del Parco regionale Sirente Velino. “Abbiamo infatti notato una notevole differenza di percezione tra residenti e ‘ritornanti’, cioè quelle persone che hanno dovuto abbandonare i propri paesi d’origine e tornano magari per le vacanze. Questi ultimi non sono più abituati a vivere nella natura e a convivere con la grande fauna. Per proteggere l’orso marsicano è necessaria una maggiore responsabilizzazione sia dei comuni che degli allevatori, serve in questo senso una spinta dal basso. Se non si cambia la cultura non si va da nessuna parte. Le linee guida ci sono, si sa cosa va fatto, va solo adattato ai contesti locali”.
Lasciate che gli avvoltoi vengano a noi
Rewilding Apennines, oltre agli sforzi per consentire l’espansione e la conservazione dell’orso marsicano, sta lavorando per favorire il ritorno di specie meno note e (forse) carismatiche, ma non meno importanti, come gli avvoltoi e i gamberi di fiume.
Alla fine degli anni Ottanta non era rimasto neppure un grifone nell’Italia continentale. Ne sopravviveva solo una piccola popolazione in Sardegna. Le cause della scomparsa furono bracconaggio, avvelenamento e diminuzione delle fonti trofiche legata all’abbandono dell’allevamento.
Ora nell’Appennino centrale, dove la specie è stata reintrodotta circa trenta anni fa, ci sono circa 64 coppie che si riproducono e il numero è in crescita. Questo è stato possibile anche grazie agli sforzi del team di Rewilding Apennines, che a partire dal 2020 lavora a fianco di rappresentanti di aree protette per sostenere la crescita della popolazione di grifoni. Il lavoro fatto sta dando i suoi frutti e anche la percezione di questi uccelli necrofagi è migliorata rispetto al passato. “Abbiamo riscontrato una percezione positiva da parte degli allevatori. Si sono resi conto che per loro gli avvoltoi rappresentano un alleato. Consentono infatti loro di risparmiare i costi di smaltimento delle carcasse. I grifoni sono spazzini estremamente efficaci, in grado di ripulire completamente una carcassa in 24/48 ore, rendendo possibile evitare l’abituale processo di smaltimento, i cui costi sono a carico dell’allevatore”, ha precisato Nicolò Borgianni, Vulture field officer di Rewilding Apennines. Il veleno rappresenta oggi la principale causa di morte dei grifoni. Si tratta in prevalenza di avvelenamento secondario: il veleno non sarebbe cioè rivolto a loro, bensì ai lupi. I parchi eolici sono la seconda causa di morte, sottostimata in passato. “Nei parchi eolici osservati si è riscontrato che una minima percentuale di pale ha causato la maggior parte dei decessi”, ha affermato Borgianni. “Questo perché i grifoni, grandi volatori, tendono a percorrere solitamente sempre la stessa rotta, passando più o meno nello stesso posto. Questa è un’informazione utile, di cui tenere conto nello sviluppo di futuri parchi eolici o nella messa in sicurezza di quelli già esistenti, per sapere che ci sono determinate e circoscritte aree in cui è meglio non costruire”.
Natura alla portata di tutti
Uno degli obiettivi del rewilding, alla base del suo successo e dei finanziamenti da parte di filantropi che riceve, è quello di rendere accessibili a tutti porzioni di terra selvaggia e di poter godere della presenza di grande fauna nel territorio italiano. Nessuno dovrebbe viaggiare troppo lontano per cercare una tregua dal nostro mondo caotico e organizzato. In occasione della tavola rotonda che ha sancito il termine del seminario, si è cercato di delineare un quadro delle strategie da adottare per ripristinare e incrementare la biodiversità in Italia. Vari fattori, come ad esempio la storia paleoclimatica, la collocazione geografica, la peculiare forma stretta e allungata, hanno permesso all’Italia di avere una biodiversità unica ed eccezionale, con un elevato numero di endemismi, che ha però bisogno di concreti interventi di tutela.
“Da un lato abbiamo una ricchezza di biodiversità straordinaria, dall’altro c’è però un conclamato cattivo stato di conservazione”, ha detto Andrea Monaco, zoologo di Ispra. “Se dico biodiversità la gente pensa al lupo, all’orso, alla foca monaca. Il baricentro della biodiversità è però da un’altra parte. Sta, ad esempio, nelle relazioni che intrecciano migliaia di artropodi che vivono nel suolo. La sfida è quella della complessità, e non la stiamo vincendo”. “Lo scienziato non è la persona che dà le risposte giuste, bensì quella che pone le domande giuste, scrisse il grande antropologo Claude Lévi-Strauss”, ha concluso la biologa Elisabetta Tosoni. “Ci auguriamo quindi di aver fatto le domande giuste nel corso di questo seminario, che possano aiutarci a comprendere le principali sfide della conservazione”.
Fino ad oggi il movimento ambientalista è stato caratterizzato da una certa reattività. Ora è il momento di individuare una nuova via e il rewilding, sostenuto da solide basi scientifiche, è una speranza per un mondo nuovamente vivo e ricco di natura.
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