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Harvard Business School: la Csr fa guadagnare di più
Uno studio di interesse straordinario passato quasi del tutto inosservato in Italia mi è stato segnalato da Federico Fioretto, membro del team italiano per la sostenibilità HSR: un’interessantissima ricerca di Robert Eccles, professore di Management Practice nell’Unità di Comportamento organizzativo alla Harvard Business School, coadiuvato da George Serafeim, professore di Business Administration e Management presso la
Uno studio di interesse straordinario passato quasi del tutto inosservato in Italia mi è stato segnalato da Federico Fioretto, membro del team italiano per la sostenibilità HSR: un’interessantissima ricerca di Robert Eccles, professore di Management Practice nell’Unità di Comportamento organizzativo alla Harvard Business School, coadiuvato da George Serafeim, professore di Business Administration e Management presso la stessa università.
I ricercatori hanno confrontato un campione corrispondente di centottanta aziende, novanta delle quali sono state classificate come imprese “ad alta sostenibilità” – quindi con percorsi e progetti di responsabilità sociale strutturati e attivi – e novanta al contrario come imprese “a bassa sostenibilità”, ovvero senza alcuna particolare sensibilità in tema di CSR. Obiettivo della ricerca era di esaminare le organizzazioni monitorate sotto il profilo della governance, della cultura e soprattutto delle prestazioni, alla luce dell’elevazione della CSR a dimensione strategica nelle aziende.
Le imprese ad alta sostenibilità “sovra-performano” – sia sotto il profilo dei risultati contabili che di quelli di borsa – rispetto a quelle prive di percorsi di CSR codificati. I risultati di ben diciotto anni di studi hanno mostrato un risultato precedentemente intuito da molti addetti ai lavori, ma che fino ad oggi mancava di conferma e di affidabile supporto scientifico.
La ricerca suggerisce però – com’è giusto e prevedibile, trattandosi di processi che incidono sul DNA stesso delle organizzazioni – che questa “sovra-performance” si verifichi solo nel lungo periodo: i gestori e gli investitori che sperano di ottenere un vantaggio competitivo nel breve periodo hanno quindi scarse probabilità di successo, se pensano di inserire la sostenibilità come keyword nella strategia della propria organizzazione senza però avviare cambiamenti strutturali sull’identità stessa dell’azienda e sul modo che essa ha di raccontarla.
Sono le politiche aziendali di alta sostenibilità che devono inevitabilmente riflettere la cultura di fondo dell’organizzazione, e non la cultura dell’organizzazione che dev’essere “piegata” al servizio della CSR al fine di darsi una “mano di verde” per apparire più “green” e più appetibili agli occhi di consumatori e investitori.
Emergono dalla ricerca alcuni concetti chiave.
– le organizzazioni che adottano volontariamente politiche ambientali e sociali si caratterizzano per una struttura di governance che tiene conto delle prestazioni ambientali e sociali della società, oltre che delle mere performance finanziarie;
– queste organizzazioni hanno un approccio “a lungo termine” indirizzato verso la massimizzazione dei profitti, e un processo attivo di relazione, gestione e coinvolgimento dei propri stakeholder;
– le aziende a bassa sostenibilità, invece, corrispondono al modello tradizionale della massimizzazione del profitto a breve termine, nel quale le questioni sociali e ambientali sono prevalentemente considerati come item da esaminarsi e ai quali assolvere solo in ragione di quanto ciò è richiesto dalle leggi e dai regolamenti;
– le preoccupazioni sociali sulla sostenibilità, sia a livello di impresa che di società nel suo insieme, sono cresciute fin dai primi anni ‘90 in modo rapido ed esponenziale, fino ad essere oggi come oggi un tema dominante;
– le imprese ad alta sostenibilità esaminate dallo studio prestano maggiore attenzione ai loro rapporti con i propri pubblici attivando processi efficaci di engagement, e misurandone poi il ritorno. Aggiungo io che uno stakeholder engagement realmente efficace è il miglior sistema per l’intercettazione dei segnali deboli di crisi;
– le imprese ad alta sostenibilità sono più propense a determinare i compensi dei dirigenti in relazione alle performance ambientali, sociali e di reale soddisfazione del Cliente, e ad elaborare sistemi certi per la determinazione delle performance attese e dei relativi incentivi;
– in queste aziende, normalmente vigono regole più stringenti in tema di trasparenza e condivisione delle informazioni, ed esse sono condivise ed applicate a più ampio spettro. Aprirsi verso il mondo esterno, aggiungo io, è un processo diversamente reversibile, e che richiede l’ingaggio dell’azienda in processi di reale condivisione con tutti gli stakeholder, che portano volente o nolente l’organizzazione a “dover rendere conto” delle proprie scelte anche al di la dell’abituale reportistica annuale.
Il dato che però appare più evidente, specie agli occhi degli imprenditori e degli investitori, è quello della crescita di valore delle aziende: un dollaro – assunto nella ricerca come unità di misura – investito nel 1990 in azioni in aziende ad alta sostenibilità e con una applicazione strutturata di politiche di CSR, ha reso – in diciotto anni – tra il 25 e il 35% in più rispetto al rendimento delle aziende a bassa sostenibilità. Ovviamente per entrambi i gruppi il valore azionario ha subito contrazioni nelle crisi borsistiche del 2003 e soprattutto 2008, ma il risultato finale è chiaro, e al momento della pubblicazione della ricerca il delta di valore fra le aziende dei due gruppi era ancora in continua ed esponenziale crescita.
Fra gli altri fattori considerati come probabile causa di questo over-performing è indicata sicuramente la capacità di attrarre, fidelizzare e incentivare le migliori forze lavoro disponibili sul mercato delle risorse umane, e non mancano casi di aziende che hanno trasformato l’attenzione verso l’ambiente in un fattore competitivo di eccellenza, trasformando o rifocalizzando la mission dell’azienda stessa su campi innovativi ad alta redditività nel campo delle tecnologie ambientali o eco-compatibili.
Anche l’Unione Europea si è recentemente pronunciata, con la proposta di Direttiva del Parlamento Europeo e del Consiglio sugli appalti pubblici, a favore di questo modello di business: strategie e azioni sistemiche di sostenibilità e responsabilità sociale si presentano come essenziali fattori di competitività anche alla luce delle politiche più recenti dell’UE sulle forniture pubbliche, le quali tenderanno sempre più a premiare gli operatori economici in grado di includere questi aspetti nella loro attività e nelle offerte per gli appalti di rilevanza comunitaria, ed entro il 2020 la Commissione Europea prevede che il 50% delle forniture pubbliche debba essere conforme a criteri riconosciuti di tutela ambientale e CSR.
Pare ormai evidente che la teoria della CSR e la pratica della sostenibilità d’impresa – ben lungi dall’essere mero strumento delle relazioni pubbliche – stiano acquistando finalmente agli occhi degli utenti finali, degli imprenditori, degli addetti ai lavori del nostro settore ed anche dei decisori istituzionali, una propria dignità di disciplina indipendente, elevabile a dimensione strategica come innovativo modello di business, vero vettore per uno sviluppo armonico e solido delle aziende del XXI secolo.
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