
In un nuovo decreto previsti limiti più stringenti per queste molecole chimiche eterne, ma ancora superiori a quelle indicate dalle agenzie ambientali.
Uno studio dell’università di Barcellona ha attribuito allo stretto di Messina il record mondiale di rifiuti sul fondale marino: più di un milione per chilometro quadrato.
Cosa hanno in comune un bambolotto, un forno a microonde e un albero di Natale? Sono tutti rifiuti depositati sul fondo dello stretto di Messina. Un nuovo report condotto dall’università di Barcellona ha infatti evidenziato come quest’area presenti la più alta densità di rifiuti al mondo, arrivando addirittura a più di un milione di oggetti per chilometro quadrato in alcune delle zone più critiche.
Lo studio è stato pubblicato sulla rivista scientifica Environmental research letters da un gruppo internazionale di ricerca guidato dall’università di Barcellona, in Spagna. Il lavoro giunge due anni dopo un importante workshop sul tema dei rifiuti nelle profondità marine organizzato a Bremerhaven, in Germania, ed è stato condotto in collaborazione con il Joint Research Centre (Jrc) della Commissione europea insieme ad alcuni enti italiani, come l’Istituto superiore per la protezione e ricerca ambientale (Ispra), la Stazione zoologica Anton Dohrn, l’università di Cagliari e l’Istituto nazionale di oceanografia e di geofisica sperimentale (Ogs), al fianco dei colleghi provenienti dal resto d’Europa, Stati Uniti e Giappone.
Nel frattempo, l’Università di Messina ha risposto a quanto emerso dalla ricerca ricordando che “lo Stretto è molto più della pattumiera che è stata descritta, seppur dei dati obiettivi dimostrano che i rifiuti ci sono, limitati al tratto tra Tremestieri e Reggio”. Infatti “il tratto oggetto dello studio di Barcellona è di circa 7 chilometri”, mentre lo stesso Ateneo di Messina “vanta ricerche continue ed uno studio su una lunghezza di circa 70 chilometri”.
Hanno anche aggiunto che “le caratteristiche ecologiche, biologiche, idrologiche dello Stretto si riflettono sugli organismi che lo popolano, influenzando l’intero assetto biologico dell’ambiente, con il risultato di avere a disposizione uno straordinario ecosistema, unico nel Mediterraneo per abbondanza di specie, biodiversità e biocenosi. I fondali del nostro mare sono caratterizzati da condizioni particolari, che rendono lo Stretto un ambiente unico nel Mediterraneo”. Ed è proprio per questo che ha bisogno di essere tutelato.
La ricerca si concentra sulla minaccia per gli ecosistemi marini costituita dalla plastica (insieme ad altri materiali come metallo, vetro, ceramica e tessuti) e fornisce una sintesi esaustiva di tutte le informazioni attualmente disponibili. Secondo gli esperti, “i rifiuti stanno aumentando nei fondali marini di tutto il mondo”, ed è una tendenza destinata a continuare anche in futuro. “Entro i prossimi 30 anni, infatti, il volume dei rifiuti marini potrà superare i tre miliardi di tonnellate” puntualizzano.
Si tratta di un problema di inquinamento che sfortunatamente non si può vedere ad occhio nudo, tutti i giorni. Questo perché delle milioni di tonnellate di rifiuti che entrano in mare ogni anno, meno dell’uno per cento è visibile, perché viene spiaggiato o galleggia sulla superficie del mare. Il restante 99 per cento sprofonda e finisce sul fondo, di cui si conosce ancora molto poco. “Anche per questo la problematica dei rifiuti in mare è globalmente riconosciuta come minaccia dilagante”, sottolineano gli scienziati.
Una preoccupazione particolare è data dal mar Mediterraneo, che è già stato descritto come uno dei più inquinati al mondo, e da tutti i “mari semichiusi, fondali costieri, aree marine sotto l’influenza di grandi foci dei fiumi e luoghi con un’elevata attività di pesca, anche lontano dalla terraferma”, spiega Miquel Canals, capo del Consolidated research group on marine geosciences dell’università di Barcellona. Nel fondale siciliano, ad esempio, i rifiuti raggiungono “densità paragonabili a quelle delle grandi discariche”.
“Nel Mediterraneo – aggiunge Canals – la spazzatura sui fondali è già un serio problema ecologico. In alcuni luoghi della costa catalana ci sono grandi accumuli. Quando ci sono forti tempeste, come la tempesta Gloria del gennaio 2020, le onde riportano i rifiuti sulla spiaggia. Alcune spiagge sono state letteralmente ricoperte”.
“Lo studio ha dimostrato che ad elevate profondità, oltre i 1.000 metri, spesso la biomassa pescata con lo strascico (pesci, crostacei, molluschi) è uguale o inferiore a quella dei rifiuti. Come dire che a certe profondità ci sono più rifiuti che pesci”, ha precisato uno degli autori, Alessandro Cau, ricercatore di ecologia al Dipartimento di scienze della vita e dell’ambiente dell’università di Cagliari.
La ricerca evidenzia anche come il 62 per cento di questi oggetti sia in plastica, che essendo leggera viene trasportata dalle correnti marine per lunghe distanze. Un problema notevole è anche dato dalle attrezzature per la pesca, come le reti, che rappresentano un’enorme minaccia per la vita marina. Praticando attività come la pesca a strascico o il dragaggio si va poi a innescare quella che gli esperti definiscono una “dispersione secondaria”, che frammenta e sparge ulteriormente questi materiali nocivi.
Ciò che emerge da questo documento però, oltre al drammatico stato dei nostri fondali, è anche quanto poco si sappia ancora sull’inquinamento di queste aree marine.
Gli esperti ricordano infatti che “l’entità degli effetti dei rifiuti sugli habitat delle vaste distese dell’oceano profondo è ancora un capitolo che deve essere scritto dalla comunità scientifica”, proprio perché le informazioni attualmente disponibili sono poche e frammentate.
Questo è dovuto alla complessità del lavoro a certe profondità e dell’accesso ad aree remote. A differenza dei materiali accumulati sulle spiagge e dei rifiuti galleggianti che possono essere identificati e controllati con metodi semplici e a basso costo, lo studio dei rifiuti del fondale marino rappresenta una vera e propria sfida tecnologica.
Lo studio suggerisce infatti la necessità di impiegare nuove e più avanzate tecnologie per sviluppare analisi approfondite sullo stato di salute di questi ecosistemi, come ad esempio l’utilizzo dei rov, i veicoli telecomandati senza pilota per osservare nel dettaglio i fondali.
Il documento si chiude con un appello da parte degli scienziati circa “la necessità di promuovere politiche specifiche per ridurre al minimo un problema ambientale così grave” riportando anche l’esigenza di un “dibattito sulla rimozione dei rifiuti dai fondali marini, un’opzione di gestione che dovrebbe essere sicura ed efficiente”.
Lo stesso Canals conclude: “I rifiuti marini hanno raggiunto i luoghi più remoti dell’oceano, anche i meno (o mai) frequentati dalla nostra specie e che non sono ancora stati mappati dalla scienza. Per correggere un male, deve essere attaccata la causa. E la causa dell’accumulo di rifiuti su coste, mari e oceani, e sul Pianeta in generale, non è altro che la produzione sproporzionata di rifiuti, la mancanza di controllo nella loro gestione e la poca, o talvolta zero, cura per evitare che si accumulino ovunque”.
Vedere immagini di ecosistemi rovinati dall’essere umano fa sempre male, ma pensare che i rifiuti siano arrivati in aree di cui noi, come specie, non conosciamo nemmeno l’esistenza è davvero scioccante.
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