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La direttiva dell’Unione europea contro l’usa e getta è ancora un esempio isolato: il nostro pianeta rimane sommerso di rifiuti di plastica monouso.
Abbandonare gradualmente la plastica monouso, perché costituisce una delle più gravi minacce ambientali della nostra epoca. Questa è la sfida che l’Unione europea ha raccolto, anche attraverso una direttiva pionieristica con la quale vieta la vendita di cannucce, piatti, cotton fioc e altri oggetti. Ad oggi, però, quello dell’Europa è ancora un esempio isolato. A dimostrarlo sono i numeri. Nell’arco del 2021 l’umanità ha generato 139 milioni di tonnellate di rifiuti di plastica monouso, la quantità più alta di sempre, 6 milioni in più rispetto a due anni prima. È quanto emerge da un approfondito studio condotto dalla Minderoo foundation.
Invece di diminuire, infatti, i rifiuti di plastica monouso sono aumentati: il volume stimato, pari a 139 milioni di tonnellate nel 2021, non era mai stato raggiunto prima. Si tratta per la stragrande maggioranza di plastica vergine, cioè realizzata a partire dai combustibili fossili. La lista delle imprese produttrici è rimasta pressoché inalterata negli ultimi due anni: al vertice c’è il colosso petrolifero ExxonMobil, seguito dal gruppo cinese Sinopec e dall’americana Dow Chemical.
Se la produzione di plastica monouso vergine aumenta, è soprattutto per via della crescente domanda di imballaggi flessibili fatti di polipropilene e polietilene lineare a bassa densità (Lldpe). Bustine, pellicole e simili ora rappresentano il 57 per cento del totale. E questo è un problema, perché sono più difficili da smistare e riciclare rispetto agli imballaggi rigidi. Capita inoltre più spesso che siano dispersi nell’ambiente.
Il fatto che ci sia così tanta plastica in circolazione è un problema ambientale, visto che ogni anno ne finiscono negli oceani almeno 14 milioni di tonnellate. Ma è anche un problema climatico. La Mindaroo foundation ha calcolato le emissioni di gas serra dirette e indirette (Scope 1, 2, 3) legate alla plastica monouso durante tutto il suo ciclo di vita (cradle to grave). Il totale per il 2021 raggiunge i 450 milioni di tonnellate di CO2 equivalente, più di quelle generate dal Regno Unito. Per la maggior parte queste emissioni sono state prodotte durante la prima parte del ciclo di vita, cioè dal comparto petrolchimico e degli idrocarburi. Ciò significa che il riciclo meccanico, saltando questa fase, riduce l’impronta di CO2 del 30-40 per cento rispetto a quella dei polimeri prodotti con metodi convenzionali.
Il riciclo dunque porta con sé enormi opportunità, ma non può essere una scusa per continuare a consumare plastica. Tanto più perché, ad oggi, è ancora un’attività “marginale” in questo settore. Tra il 2019 e il 2021, la capacità di riciclo di polietilene, polipropilene, polistirene e pet (polietilene tereftalato) è passata da 23 a 25 milioni di tonnellate. Soltanto 2, però, vengono ritenute realmente circolari perché la plastica monouso è stata riciclata per produrne altra, da usare per esempio nel packaging.
Oltretutto, la quantità di plastica monouso vergine è cresciuta a un ritmo 15 volte superiore rispetto a quella realizzata a partire da materie prime riciclate. “Solo un forte intervento normativo, mediante incentivi economici, può risolvere ciò che equivale a un fallimento di mercato”, si legge nello studio. I colossi del petrolchimico, infatti, investono nel riciclo soltanto laddove le condizioni economiche sono più favorevoli per via di una domanda maggiore e di politiche che spingono in questa direzione. Ad oggi, le proiezioni dicono che, da qui al 2027, si potranno riciclare soltanto 3 milioni di tonnellate di plastica in più; ma nel frattempo aumenterà di 60 milioni di tonnellate la produzione di polimeri vergini.
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