La startup italiana Bufaga propone l’installazione di dispositivi in grado di rimuovere le polveri sottili. Prossima tappa: la metro di Roma.
Un oceano di rifiuti spaziali ruota attorno alla Terra
Il 17 marzo 1958 venne lanciato nello spazio il satellite Vanguard 1. La sua attività permise ai cartografi di creare mappe più precise di alcune isole dell’Oceano Pacifico, oltre a confermare che la Terra non fosse perfettamente sferica. Fu anche il primo satellite a energia solare: la durata massima di permanenza era stata stimata in
Il 17 marzo 1958 venne lanciato nello spazio il satellite Vanguard 1. La sua attività permise ai cartografi di creare mappe più precise di alcune isole dell’Oceano Pacifico, oltre a confermare che la Terra non fosse perfettamente sferica. Fu anche il primo satellite a energia solare: la durata massima di permanenza era stata stimata in 2000 anni ma si scoprì che la pressione delle radiazioni solari e il freno atmosferico producevano perturbazioni in grado di diminuire la durata di vita del satellite, facendola scendere a 240 anni. L’ultimo rilevamento nello spazio è del 2008 e il Vanguard 1 risulta così essere il più antico oggetto in orbita creato dall’uomo, nonostante abbia smesso di funzionare nel 1964. Questo è il punto: il satellite è ancora lì e sta contribuendo – nonostante le sue dimensioni estremamente ridotte – a un problema crescente e sottovaluto. Quello dello space junk, ovvero la presenza di rifiuti spaziali.
Milioni di rifiuti spaziali attorno alla Terra
Secondo la European space agency (Esa) in orbita ci sono più di 600mila oggetti creati dall’uomo di dimensioni superiori a 1 cm e svariate decine di milioni quelli di dimensione inferiore. Si tratta di detriti che viaggiano a velocità di migliaia di chilometri all’ora, creando un rischio altissimo di collisioni con i satelliti che usiamo quotidianamente per le nostre connessioni e comunicazioni, per il monitoraggio meteorologico e per la navigazione. Ogni frammento può inoltre colpirne degli altri, creando a catena un numero ancora maggiore di rifiuti spaziali.
Di recente, l’università di Warwick ha ammonito gli scienziati: i satelliti non vengono monitorati abbastanza. Per questo l’ateneo suggerisce indagini più regolari per aiutare a quantificare i rischi di collisione: in uno studio condotto dal fisico James Blake, sono stati osservati frammenti di dimensioni superiori al metro. E più del 75 per cento di essi non può essere identificato come un oggetto noto, secondo i cataloghi satellitari pubblici.
Read all about the perils of space debris, and the trouble they cause satellites, in this article by @jblake_95 from Warwick’s Astronomy and Astrophysics Group.
Maybe this is why my Strava said that I ran through a lake last night… 🏃♂️🧭https://t.co/dnHkQKCUke pic.twitter.com/fewnAQHQpR
— Warwick Uni Library (@warwicklibrary) July 15, 2020
Dal lancio dello Sputnik, nel 1957, ad oggi, ne sono stati effettuati oltre quattromila nello spazio. È così che è stata prodotta una quantità gigantesca di rifiuti. Dei quasi novemila oggetti catalogati, circa il 22 per cento è costituito da satelliti ormai non più funzionanti, la maggior parte dei quali per uso militare. Un ulteriore 17 per cento è costituito da stadi propulsivi di razzi, che vengono rilasciati nella fase finale di un lancio. Circa il 13 per cento è costituito da elementi che si usano normalmente sui satelliti artificiali: bulloni, coperture termiche, ma anche semplicemente scaglie di vernice che si sono staccati dalla superficie esterna dei satelliti.
E infine, il 43 per cento è costituito da frammenti dovuti a circa 150 esplosioni: come riportato dall’Esa, si tratta di deflagrazioni dovute in gran parte a esperimenti militari, tesi a mettere a punto armi anti-satellite. Questi test oggi sono stati sospesi ma per l’Esa sono la conferma che le collisioni tra detriti sono eventi rari.
Collisioni tra detriti, un effetto a catena
L’incidenza di questi ultimi potrebbe però crescere man mano che si creano detriti nello spazio. Nel 2009 il satellite inattivo Cosmos 2251 (in orbita dagli anni Novanta) e quello operativo Iridium 33 si sono scontrati a una velocità di 11,7 km al secondo (ovvero più di 42 mila km all’ora). Entrambi i satelliti sono andati distrutti generando oltre 1700 detriti più piccoli che vanno ora a costituire un rischio aggiuntivo per i velivoli spaziali.
Nonostante questi detriti viaggino a una distanza di circa 36mila km dalla superficie terrestre (l’orbita geosincrona dove vengono posizionati tutti i satelliti in uso) è possibile che alcuni di essi arrivino sulla Terra e, nonostante la presenza dell’atmosfera, atterrino in superficie. Il National oceanic and atmospheric administration (Noaa), l’ente degli Stati Uniti che si occupa del controllo dell’atmosfera, parla di 200-440 oggetti che rientrano sulla Terra ogni anno, cioè circa uno al giorno. Per la maggior parte si tratta di “rientri” guidati: tra il 1971 e il 2016, 263 veicoli spaziali sono stati diretti verso una zona del Pacifico conosciuta come “polo dell’inaccessibilità” o “Point Nemo”, le cui coordinate individuano il punto più lontano da tutte le terre emerse circostanti, tra la Nuova Zelanda e l’America del Sud. Una sorta cimitero dello spazio.
Ci sono poi pezzi di razzi che, monitorati, cadono in mare. Ma a volte alcuni di questi sfuggono ai controlli: l’11 luglio 1979 la stazione spaziale americana Skylab precipitò in una zona remota dell’Australia, scatenando il panico tra la popolazione. La contea australiana di Esperance fece causa alla Nasa.
La pulizia spaziale
Più che un pericolo per la Terra, secondo gli esperti uno spazio affollato di detriti potrebbe generare qualche difficoltà alle esplorazioni future. Possiamo ripulire ciò che abbiamo creato, dar vita a un movimento di clean-up spaziale? C’è chi ha usato reti, arpioni e laser ma i risultati, secondo l’Esa, sono irrilevanti. Ciò che serve è prevenire la produzione di spazzatura nello spazio, per esempio facendo rientrare i satelliti al termine della loro vita operativa, causandone la distruzione a terra (anche se qui dovremmo aprire un capitolo sull’impatto di questi detriti in mare).
Un’altra modalità già messa in pratica consiste nello spingere i satelliti, una volta arrivati alla fine della loro attività, verso orbite più alte, in modo da “liberare” la strada ad altri satelliti. Infine, sempre parlando di prevenzione, i costruttori devono prevedere lo svuotamento sistematico dei serbatoi dei razzi, in modo da ridurre al minimo le conseguenze in caso di impatto.
Dal punto di vista legale, si è in attesa che le Nazioni Unite riconoscano il problema dei rifiuti spaziali come questione da regolare attraverso uno specifico accordo tra stati. Chissà che lo studio appena pubblicato dall’università di Warwick non aiuti a raggiungere questo decisivo traguardo.
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