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Rifò, la startup che produce capi nuovi da filati di cashmere e jeans rigenerati
È nata a Prato e non poteva nascere altrove Rifò, la startup fondata da Niccolò Cipriani che recupera abiti usati, ne rigenera il filato grazie alla sapienza degli artigiani locali e lo usa per confezionare capi nuovi. L’idea nasce dalla volontà di ridurre il consumo di materie prime recuperando materiali di valore la cui vita
È nata a Prato e non poteva nascere altrove Rifò, la startup fondata da Niccolò Cipriani che recupera abiti usati, ne rigenera il filato grazie alla sapienza degli artigiani locali e lo usa per confezionare capi nuovi. L’idea nasce dalla volontà di ridurre il consumo di materie prime recuperando materiali di valore la cui vita è tutt’altro che conclusa, ma anche di produrre in modo da evitare spreco e sovrapproduzione. In questo modo Rifò punta a creare un sistema moda più sostenibile, amico dell’ambiente e delle professionalità che vi lavorano, e che coinvolga i consumatori offrendo loro la possibilità di smaltire i vestiti che non usano più.
Come funziona Rifò: obiettivo zero waste
Ridurre lo spreco a monte e a valle della propria filiera significa molte cose. Recuperare gli abiti usati, infatti, vuol dire evitare che vadano buttati o trasformati in prodotti di minor valore tramite il riciclo. Basti pensare che una fibra di cotone denim può essere rigenerata fino a 3 volte e una di cashmere vergine anche 5 volte. Rifò utilizza le competenze storiche del comparto tessile locale e degli artigiani specializzati, costruendo così l’innovazione sulle fondamenta della tradizione. Ma non basta applicare un modello di economia circolare se poi si creano nuovi scarti: è per questo che Rifò adotta un metodo di prevendite online con cui cerca di ridurre al minimo la sovrapproduzione, problema che affligge il settore della moda globale.
Un modello radicato nel territorio
La filiera produttiva di Rifò si trova interamente nel distretto tessile di Prato che copre un raggio di soli 30 chilometri e si può dire sia davvero a km zero – eccetto per quanto riguarda l’approvvigionamento dei capi da rigenerare che arrivano da tutta Italia. Questo permette alla startup di ridurre il consumo di carburante e semplificare la logistica ma anche di seguire quotidianamente le operazioni e confrontarsi con gli artigiani. Lavorare con questi ultimi garantisce a Rifò anche agilità e flessibilità, e la possibilità di privilegiare le piccole produzioni, più sostenibili.
Il distretto tessile di Prato è un territorio ricco di “mestiere”: le prime attività nel settore risalgono già al 1200 e la lavorazione degli “stracci” è una tradizione radicata. Quasi 100 anni fa si sono rafforzate in modo particolare le competenze sulla rigenerazione della lana e del cashmere, materiali di pregio che mantengono la loro qualità a lungo. Con il tempo si sono sviluppati nuovi know how e anche Rifò ha continuato a innovare rimanendo nel solco della tradizione. Per quanto riguarda il jeans rigenerato invece, la startup ha sperimentato un filato sviluppato da un’azienda locale e lo ha utilizzato per creare prodotti di maglieria. È per valorizzare processi già esistenti nel distretto, dunque, che le collezioni di Rifò sono principalmente realizzate in cashmere (o lana) e denim.
Il mestiere dei cenciaioli
Questa filiera non sarebbe possibile senza l’esistenza di figure tradizionali. Alla base del lavoro di upcycling ci sono infatti i cenciaioli, artigiani il cui nome deriva dalla parola toscana cenci che significa stracci. I cenciaioli suddividono a mano grandi quantità di vecchi indumenti, selezionandoli in base a qualità, materiale e colore. Allo stesso tempo controllano se il tessuto ha delle imperfezioni e rimuovono gli elementi estranei come cerniere o cuciture. I tessuti così selezionati possono essere inseriti nel processo di rigenerazione senza la necessità di essere tinti di nuovo, evitando un consistente consumo di acqua e sostanze chimiche.
Per quanto antico, questo è un mestiere fondamentale anche oggi, poiché permette di applicare i principi dell’economia circolare con l’obiettivo di utilizzare le risorse più volte, mantenendo e valorizzando le loro caratteristiche, creando prodotti a elevato valore aggiunto. Rifò, inoltre, destina parte dei propri ricavi al finanziamento di una scuola per cenciaioli rivolta ai ragazzi coinvolti nei programmi di integrazione sul territorio: un progetto di impatto sociale che unisce i temi della formazione a quelli della salvaguardia della tradizione tessile.
Non basta l’economia circolare, bisogna eliminare la sovrapproduzione
Per evitare di produrre più di quanto è necessario e di rimanere con molto invenduto, Rifò mette in prevendita online i propri capi e raccoglie gli ordini in anticipo così da produrre solo il necessario. Questo permette alla startup di lavorare sulle piccole quantità e di seguire meglio la produzione, e agli artigiani di lavorare secondo le proprie tempistiche e gli standard di qualità desiderati.
L’analisi dei dati delle prevendite e degli ordini aiuta Rifò a comprendere i gusti delle persone e le richieste del mercato rispetto a un prodotto nuovo, così da riproporre nella stagione successiva solo i prodotti di maggior successo. Una cosa che può sembrare strana a chi non è abituato a questo approccio sono gli sconti sui capi, che vengono applicati prima che gli indumenti vengano prodotti e non quando rimangono invenduti.
Per chi vuole smaltire i propri vestiti
Ognuno può portare il proprio capo in jeans o 100 per cento cashmere o lana in uno dei punti di raccolta sul territorio, affinché venga rigenerato e trasformato in una creazione della collezione Rifò. Chi dona riceve un buono sconto da utilizzare sul sito della startup. In Italia tutti i punti vendita NaturaSi partecipano alla raccolta e a Milano anche i negozi Muji.
La rigenerazione delle fibre tessili è possibile solo quando i capi sono composti al 100 per cento (o quasi) da un determinato materiale, che sia vergine o rigenerato. Quindi scegliere al momento dell’acquisto capi in cotone o in lana che non presentino percentuali importanti di materiali sintetici, significa anche progettare di poter dare, in futuro, una nuova vita ai propri abiti.
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