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Roberto Orecchia. Produrre vestiti sostenibili si può. Non ci sono più scuse
Un intero piano del retail park è dedicato al fashion sostenibile. Oltre 30 negozi tra capi in cotone organico, plastica riciclata, tinture naturali. Intervista al responsabile Roberto Orecchia.
Il settore dell’abbigliamento è il secondo più inquinante al mondo. Colpa del fast fashion, caratterizzato da un consumo sfrenato di vestiti economici e di breve durata. La nascita di nuove imprese slow, attente al proprio impatto ambientale, non è condizione sufficiente per cambiare le cose: c’è bisogno che tutte, soprattutto quelle che stanno inquinando di più in questo momento storico, si convertano alla sostenibilità. L’obiettivo di Green Pea è proprio quello di spingere le imprese del settore in questa direzione, come spiega Roberto Orecchia, imprenditore, titolare del negozio Vestil di Torino e responsabile del secondo piano del green retail park più famoso del momento.
Chi è Roberto Orecchia? E perché è stato scelto da Green Pea?
Rappresento la terza generazione del negozio Vestil di Torino, aperto dal 1957. Ho conosciuto Oscar Farinetti perché, oltre al negozio di abbigliamento, ero titolare anche di un’azienda di pasta all’uovo. Io e Oscar siamo fin da subito entrati in sintonia, già ai tempi di Eataly per via della mia passione per il cibo. A dirla tutta ho conosciuto Farinetti durante la rivisitazione di una festa popolare piemontese: si chiama cantè j’euv ed è una tradizione che si tiene nel Roero durante la quaresima. Fu durante una di queste feste – complice Carlo Petrini – che conobbi Farinetti. Parlandoci insieme, Oscar mi chiese a che punto era la sostenibilità nell’abbigliamento. Io risposi che eravamo lontanissimi dagli standard ambientali a causa della scarsità di materia prima e poi perché, nell’immaginario comune, la maggior parte del vestiario di questo genere era legato al fair trade. Eravamo nel 2010.
Farinetti riuscì a farle cambiare idea?
Mi raccontò l’idea embrionale del suo progetto e mi convinse. Iniziai ad approfondire la tematica e scoprii che in realtà esisteva tutto un sottobosco di imprenditori che già stava lavorando in quella direzione. Con Green Pea fissammo uno scopo preciso: dovevamo convincere le aziende che ancora non erano sostenibili a diventarlo. Se volevamo produrre un cambiamento effettivo dovevamo passare da lì. Inutile puntare su quel 3-5 per cento che già lavora in modo sostenibile: dobbiamo convertire chi ancora non lo fa.
Ci siete riusciti?
Ci sono voluti anni ma abbiamo convinto molte aziende con cui abbiamo iniziato a collaborare. Altre hanno abbandonato, alcune invece hanno potenziato la loro produzione green sfruttando la visibilità offerta da Green Pea. Complice il momento storico: dieci anni fa non c’era tutta questa sensibilità né disposizione di materie prime. Oggi invece le cose sono cambiate: all’ingresso del nostro piano abbiamo installato una materioteca con oltre cinquanta tipi diversi di materiali. In questo modo chiunque può rendersi conto della vasta disponibilità che oggi il mercato propone in termini di materiali sostenibili. Sopra la materioteca abbiamo appeso un messaggio: “non ci sono più scuse”. Con questo intendiamo dire che oggi è solo questione di volontà.
Facciamo qualche esempio di aziende che si sono convertite. Cosa hanno dovuto cambiare?
Premessa: noi abbiamo chiesto che le imprese non facessero una capsule, cioè una linea dedicata a Green Pea ma che si impegnassero a convertirsi totalmente alla sostenibilità. Sappiamo che questi processi possono durare anni e che magari non potranno mai raggiungere il 100 per cento della sostenibilità ma se già arrivassero all’80-90 per cento, sarebbe comunque un bel traguardo. Per alcuni il problema è stato come procurarsi pelle sostenibile. In alcuni casi abbiamo suggerito noi una filiera differente: per esempio, abbiamo proposta a La Granda, carne presidio Slow Food macellata in provincia di Cuneo, di fornire il pellame a uno storico brand di pelletteria, così da ridurre gli sprechi e realizzare un utilizzo circolare delle risorse. Oppure c’è questa azienda spagnola il cui fondatore, stanco di fare il bagno nei rifiuti, ha convinto i pescatori a raccogliere la plastica in mare. Oggi ci sono 730 barche, 60 porti coinvolti e 3 mila pescatori che raccolgono reti da pesca abbandonate in mare che vengono convertite in econyl, un filato che viene impiegato per fare giacconi e calzature. Ecco, questo esempio dimostra quanto siamo radicali nei processi ma non nell’uso di materiali: la plastica esiste e non siamo contro di essa. Invece di produrne di nuova dobbiamo impegnarci a recuperarla e riciclarla. Cotone organico, tinture naturali, scarpe in caucciù naturale, zaini in concia vegetale, vestiti in plastica pet riciclata, cinture in gomma recuperata dai copertoni delle bici, scarpe composte a partire dagli scarti della lavorazione di velluto: ogni singola azienda accolta in Green Pea ha una storia di sostenibilità da raccontare.
Fin dove può arrivare il cambiamento? Cioè, è realistico che l’intero settore presto si converta alla sostenibilità e abbandoni il fast fashion?
Quel che è certo è che il cambiamento è iniziato e per ora il nostro lavoro è arrivare fin dove è possibile. Ci sono tre cose che facciamo tutti, quotidianamente: muoverci, vestirci e abitare. Se riusciamo a cambiare queste tre cose allora abbiamo fatto il nostro dovere. Che poi il dovere dev’essere un piacere: from duty to beauty è il nostro payoff. Una camicia bianca è una camicia bianca: perché non provarne una in pet riciclato, econyl o in cotone organico? Si fa un favore all’ambiente, e anche a se stessi perché si compra un capo che dura di più ed è meno impattante. Su questo argomento è necessario cambiare la cultura del consumatore: non è possibile acquistare una passata di pomodoro a trenta centesimi perché a quel prezzo è sicuro che qualcuno, lungo la filiera, patisca. E nella moda è lo stesso: una maglia da 30-40 euro non può esistere.
Qualcuno potrebbe obiettare di non avere le disponibilità economiche per permettersi capi d’abbigliamento più costosi di quella cifra…
È vero che noi vendiamo capi che costano di più della media. Ma sono capi che durano di più. È garantito. C’è un ragazzo qui a Green Pea che espone i suoi prodotti e che è esemplare: in questo momento ha realizzato una maglietta bianca. E basta. Una semplice maglietta bianca, fatta bene, senza sostanze nocive, come va fatta insomma. Poi quest’estate proporrà un costume. D’inverno una maglia e così via. Quello che ci sta dicendo questo ragazzo è che non abbiamo bisogno di tanti vestiti: pochi ma buoni. Dobbiamo cambiare le abitudini dei consumatori. Per questo proponiamo all’interno di Green Pea una sartoria dove personalizziamo e ripariamo i capi. In seguito introdurremo un discorso di second life: si potranno restituire vestiti usati in cambio di uno sconto sul nuovo.
Se tutto questo discorso andrà in porto, il mercato crescerà e i prezzi in questo modo si abbasseranno per tutti. Le aziende dal canto loro possono rinunciare a un pezzettino di profitto e fare prodotti più sostenibili. D’altronde, noi siamo un luogo di retail, dobbiamo lavorare e vendere però possiamo farlo in un modo diverso da prima. È meglio smettere di consumare o iniziare a consumare con rispetto? La risposta è che non possiamo smettere di consumare perché siamo la civiltà dei consumi: ma possiamo farlo nel modo giusto.
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