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Perché il presidente delle Filippine ha dato del “figlio di puttana” a Obama? C’entra la politica di terrore e violenza che sta portando avanti nel paese contro il traffico di droga che ha causato quasi duemila morti.
Ha definito il presidente degli Stati Uniti Barack Obama un “figlio di puttana” usando un’espressione in lingua tagalog, poi ha aggiunto “ti insulterò”. Così la delegazione americana ha deciso di annullare l’incontro bilaterale con il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte previsto per il 6 settembre in Laos durante il vertice dell’Associazione delle nazioni del Sudest asiatico (Asean).
Duterte ha pronunciato quelle parole rispondendo alla domanda di alcuni giornalisti che gli hanno chiesto cosa avrebbe risposto a Obama nel caso in cui avesse sollevato la questione delle esecuzioni e delle uccisioni extragiudiziali legate allo spaccio e al consumo di droga. “Sono il presidente di uno stato sovrano e abbiamo smesso di essere una colonia da parecchio tempo”, ha dichiarato Duterte lunedì, prima di partire per il Laos. “Non ho padroni all’infuori del popolo filippino, proprio nessuno”, salvo poi scusarsi che le sue parole siano diventate “un attacco personale al presidente americano”.
Rodrigo Duterte, 71 anni, eletto presidente delle Filippine il 10 maggio ed entrato ufficialmente in carica il 30 giugno, non è nuovo a questo linguaggio e a questo tipo di attacchi. Lo stesso insulto, condito di omofobia, lo ha riservato anche all’ambasciatore americano nelle Filippine Philip Goldberg, colpevole di aver criticato l’allora aspirante presidente durante la campagna elettorale per le sue affermazioni riguardanti lo stupro e l’uccisione di una suora australiana durante una rivolta in carcere. Duterte si era rammaricato di non essere stato il primo ad aver commesso l’abuso in quanto primo cittadino.
Duterte è stato sindaco per molti anni di una delle più grandi città del paese, Davao. Durante la sua amministrazione è diventato noto nelle Filippine e all’estero per la sua politica senza regole contro criminali, consumatori e trafficanti di droga. Non ha mai negato il suo legame con la squadra di vigilantes Davao death squads che avrebbe ucciso oltre mille persone a partire dagli anni Novanta, sospettate di avere legami con il narcotraffico. Per questo è stato soprannominato “Duterte Harry”, parafrasando il nome del violento ispettore Harry Callaghan (“Dirty Harry”) interpretato dall’attore americano Clint Eastwood nei suoi film. Le stesse modalità le ha promesse prima delle elezioni presidenziali e le ha messe in atto non appena salito al potere. Il 22 agosto Ronald dela Rosa, uno dei più alti ufficiali della polizia filippina, ha dichiarato durante un’audizione al senato che le uccisioni da parte di poliziotti e vigilantes nelle operazioni di contrasto alla droga hanno raggiunto quasi quota 1.800 nelle sette settimane di presidenza. Anche se molte testate, come il Wall street journal, riportano che siano già state superate duemila vittime. Nelle Filippine il mandato presidenziale è unico e dura sei anni.
Anche le Nazioni Unite hanno condannato la politica di sostegno del governo di Manila alle uccisioni extragiudiziali attraverso le parole del segretario generale Ban Ki-moon e dell’Ufficio per il controllo della droga e la prevenzione del crimine (Unodc). L’Onu considera tali azioni “illegali e una violazione dei diritti fondamentali e delle libertà”. Per tutta risposta il presidente filippino ha dichiarato lo “stato di non diritto” dopo l’attentato che si è verificato il 2 settembre proprio a Davao che ha causato la morte di 14 persone. Attribuito dal ministero della Difesa al gruppo separatista islamico Abu Sayyaf, l’episodio è stato l’occasione per rafforzare i poteri dell’esercito, che ora potrà effettuare controlli nelle città, fare perquisizioni, imporre il coprifuoco e aumentare i posti di blocco. Nei fatti, secondo gli esperti, ora sarà persino più facile per Duterte continuare e ampliare la sua violenta politica antidroga.
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