Con “Cose belle dal mondo per non pensare che va tutto male”, la nostra rubrica Instagram diventa un libro con storie di impatto positivo su persone e ambiente. È in libreria dal 5 novembre.
“Come essere un buon antenato” è il pensiero che può salvare il pianeta
Per affrontare la sfida del riscaldamento globale dobbiamo sviluppare la visione a lungo termine. Il filosofo Roman Krznaric ci spiega come fare.
- Nel suo libro “Come essere un buon antenato”, il filosofo Roman Krznaric spiega perché sviluppare la visione a lungo termine può aiutarci ad affrontare le sfide legate ai cambiamenti climatici.
- La cultura occidentale è bloccata dalla visione a breve termine che considera il futuro come “una discarica”.
- Il “cervello marshmallow”, che cerca la gratificazione immediata, deve essere bilanciato dal “cervello ghianda”, quella facoltà mentale capace di essere più consapevole e lungimirante.
Per Roman Krznaric, la nostra cultura è immersa nella visione a breve termine, che cerca la gratificazione immediata e considera “il futuro come una discarica” che non sarà abitata da nessuno. La politica, la tecnologia, la società stimolano continuamente quella facoltà mentale che il filosofo britannico definisce “cervello marshmallow”, perché insegue la ricompensa istantanea. Per affrontare le sfide dei cambiamenti climatici, l’essere umano deve tornare a sviluppare un’altra abilità, “il cervello ghianda”, quella capace di agire con una visione a lungo termine.
Nel suo libro Come essere un buon antenato, di Edizioni Ambiente, Krznaric ci conduce ad una prospettiva rivoluzionaria, in cui i movimenti nati dal basso e i modelli alternativi di pensiero hanno un ruolo fondamentale. Lo abbiamo intervistato ottenendone un racconto necessariamente lungo, che approfondisce una visione controcorrente che merita forza, spazio e tempo.
Dobbiamo diventare dei buoni antenati perché, fino ad ora, le azioni dell’uomo non sono mai state così potenzialmente dannose per le generazioni future.
Quello che incide sul risultato di un’azione è anche l’intento, la motivazione, le ragioni che ci muovono a compierla. Le chiedo quindi: perché dobbiamo diventare dei buoni antenati?
È vero, l’intento incide, ma credo che le nostre azioni prendano forma anche dal linguaggio e dalle metafore che usiamo, perché creano la nostra visione del mondo e le diverse prospettive. L’espressione “buon antenato” l’ho presa in prestito dal grande immunologo Jonas Salk; per lui la grande domanda del nostro tempo è “come possiamo essere dei buoni antenati”? È una riflessione potente, che sposta la concezione del tempo e ci invita a pensare a come potremmo venire giudicati dalla generazioni future per quello che abbiamo fatto o non fatto, quando avevamo la possibilità di agire. Tornando al perché dovremmo diventare dei buoni antenati, una ragione fondamentale è che nella storia dell’umanità le azioni dell’uomo non sono mai state così potenzialmente dannose per le generazioni future. Pensiamo al degrado ambientale, al consumo delle risorse, alla perdita della biodiversità, all’acidificazione degli oceani, ai rischi legati alla tecnologia, all’ingegneria biologica e dell’intelligenza artificiale e a tutte le altre conseguenze a lungo termine di cui siamo responsabili. Dovremmo diventare dei buoni antenati anche perché, come esseri umani, siamo inseriti in una dimensione multi generazionale. Tra l’anno di nascita di nostro nonno e l’ipotetico anno di morte di un nostro nipote possono passare anche due secoli. Questo significa che anche solo all’interno delle sole relazioni familiari siamo connessi a più generazioni. Dovremmo quindi voler essere buoni antenati perché nel futuro ci sono tracce della nostra stessa vita.
In un’intervista ha detto che viviamo in un’era di visione a breve termine patologica. Cosa intende?
Patologico ha due differenti significati: da un lato indica qualcosa di estremo, in questo caso una visione a breve termine eccessiva, anormale. Dall’altro, può definire questo atteggiamento come una sorta di malattia. Personalmente intendevo una via di mezzo tra questi due significati, ovvero che la nostra cultura ci blocca, e in un certo senso ci costringe, ad avere una visione a breve termine. Intendo cultura in senso ampio, come istituzioni politiche, economiche e sociali. Sappiamo ad esempio che il susseguirsi dei cicli elettorali delle democrazie rappresentative non incoraggiano i politici a cercare una visione a lungo termine. L’interesse è focalizzato invece sull’ultimo sondaggio e sulle tornate elettorali in arrivo. La visione a breve termine “patologica” è legata alla natura culturale del tempo. La natura dei social media, ad esempio, ci lega alla gratificazione istantanea, alla continua ricerca della scarica di dopamina. Il ciclo di dopamina è un meccanismo sfruttato dalle società e dai social media proprio per generare dipendenza e in questo senso sì, è una malattia. E poi c’è il sistema economico che ha visione a breve termine patologica perché è incastrato nelle quotazioni giornaliere, nei report trimestrali e così via.
Dovremmo voler essere buoni antenati perché nel futuro ci sono tracce della nostra stessa vita.
Perché la concezione lineare del tempo non promuove una visione a lungo termine mentre la concezione circolare sì?
Da un certo punto di vista, la concezione lineare del tempo può espandere la nostra consapevolezza. Se pensiamo alle origini della vita sulla terra, 3,8 bilioni di anni fa, questo può espandere la nostra visione legata al qui e ora, ma pensare al tempo ciclico ha in sé un potere particolare. Il tempo ciclico ecologico naturale. Le stagioni, il ciclo del carbonio, il ciclo lunare sono elementi che ci permettono la riconciliazione con il mondo vivente. Una connessione più profonda con la natura. Se perdiamo il contatto con questi cicli e restiamo solo con l’idea del tempo lineare o con i cicli artificiali che abbiamo costruito, come il ciclo delle tasse, il ciclo delle elezioni e il ciclo dei report finanziari e cose simili, non credo che saremo in grado di superare quella distanza fondamentale tra l’uomo e la natura, creatasi intorno al tardo medioevo e alla prima parte dell’era moderna. Mi riferisco alla concezione che vede gli esseri umani esterni al mondo naturale e anche superiori ad esso.
In che modo quindi la natura può aiutarci ad avere una visione a lungo termine?
Il lavoro della grande esperta di biomimesi, Janine Benyus per me è stato una rivelazione. Ha sviluppato il suo metodo partendo da alcune domande fondamentali: cosa possiamo imparare dalla natura e dai suoi 3,8 bilioni di anni di evoluzione? Come le altre specie hanno imparato a sopravvivere per 10mila generazioni e oltre? La risposta è questa: ‘Hanno imparato che prendersi cura del luogo in cui vivono significa prendersi cura della progenie’. In altre parole, la maggior parte delle creature ‘non sporca il proprio nido’, non rovina l’ecosistema del luogo in cui vive, mentre noi stiamo facendo esattamente il contrario da un secolo a questa parte. La sfida è quindi quella di innamorarsi della foresta, della savana, della laguna e delle montagne e imparare a non sporcare il nostro nido. Questo significa imparare della natura. Quello che ho capito io è che la visione a lungo termine non è solo questione di tempo, ma anche di luogo, di spazio. Non significa quindi solo pensare a come vivremo nei prossimi 50 anni, ma a capire che, se ci prendiamo cura del luogo oggi, allora ci stiamo prendendo cura delle generazioni che verranno.
Ha scritto che stiamo colonizzando il futuro, come se fosse terra di nessuno, pensandolo addirittura come una discarica. Quando abbiamo iniziato a farlo e che basi ha questo meccanismo?
La metafora dei “colonizzatori del futuro” deriva in parte dalle mie origini australiane. La narrazione dei coloni inglesi dipingeva l’Australia del diciottesimo secolo come terra abitata da nessuno e ovviamente non era così. In modo simile, ora trattiamo il futuro come se fosse uno spazio vuoto in un tempo vuoto, mentre sappiamo perfettamente che sarà abitato da milioni e milioni di persone. Questa visione nasce probabilmente dalla rivoluzione industriale, dall’idea di progresso e di modernità che si traduce in sviluppo economico ad ogni costo e nel rifiuto di tenere in considerazione il futuro, soprattutto nel mondo occidentale. Un primo pensiero nato in contrapposizione all’ideale imperante di progresso economico arriva alla fine della seconda guerra mondiale, intorno al 1960. Pensiamo al libro Primavera silenziosa di Rachel Carson, che ha iniziato a metterci in allarme sulle conseguenze di quello che stavamo facendo o alle ricerche sull’impatto delle emissioni di anidride carbonica pubblicate negli anni Ottanta.
Siamo come rane in una pentola sul fuoco: ci lasciamo bollire perché il calore planetario aumenta troppo lentamente per scatenare in noi la reazione necessaria a farci saltare fuori.
L’ “effetto discarica” lo vediamo già, ma sembra non essere abbastanza per farci reagire. Sull’emergenza climatica ha scritto che siamo come rane in una pentola sul fuoco che si lasciano bollire perché il calore planetario sta aumentando troppo lentamente per scatenare la reazione necessaria. Cosa può davvero portarci all’azione?
Questa è la domanda: come facciamo a diventare rane che saltano fuori dalla pentola prima di finire bollite? Dobbiamo guardare alla storia e chiederci: cosa sappiamo in merito alla capacità della società di intraprendere dei cambiamenti rapidi e trasformativi? Una cosa che ci fa passare all’azione è la guerra. Dopo la seconda guerra mondiale la società nel mondo occidentale ha fatto dei cambiamenti economici di grandissima portata. Certo, la crisi ecologica non è simile alla guerra. Quindi come possiamo innescare un’effettiva risposta a questo tipo di crisi? Storicamente sappiamo che serve la combinazione di tre fattori: il primo sono le azioni di disturbo dei movimenti sociali, che servono a creare e a diffondere un senso di crisi; il secondo fattore riguarda le idee, servono idee nuove che facciamo da motore e da guida per questi movimenti. Il terzo è l’esistenza di una crisi effettiva, che può essere ad esempio ecologica, tecnologia, finanziaria. Una crisi da sola non basta a innescare un vero cambiamento, ma se prendono forma nuove idee insieme ai movimenti della società allora sì, il cambiamento profondo può avvenire. Pensiamo ad esempio alla caduta del muro di Berlino. Nella crisi finanziaria del 2008 c’era appunto la crisi, la reazione della società con il movimento Occupy Wall Street, ma non c’erano di fatto nuove idee, un nuovo modello economico. E per questo non siamo riusciti a fare il salto e siamo rimasti nel vecchio modello. Le proteste hanno il grande ruolo di esacerbare la percezione della crisi. Ecco perché sono un grande sostenitore dei movimenti come Exctintion rebellion, Just stop oil e altri. Stanno rompendo le regole.
Possiamo dire che oltre a colonizzare il futuro, i media, internet, la politica, stanno colonizzando anche il nostro presente? Penso a quanto ha scritto in merito a Facebook ad esempio. Facebook è Pavlov e noi siamo i cani. Siamo manipolati?
Sì siamo manipolati, distratti, come nel film “Don’t look up!”. Ma anche quando non siamo manipolati e abbiamo di fronte a noi la verità, è ancora difficile reagire, perché si innesca il meccanismo psicologico di negazione. Non vogliamo pensare alle questioni negative perché ci spaventano troppo. Questo rende tutto molto più complicato.
Sembra che tra il “cervello marshmallow” e il “cervello ghianda” ci sia una specie di lotta. Come se fossero due meccanismi opposti che si autoescludono: mi compro l’ultimo modello di cellulare o metto i soldi da parte per la pensione? Esiste invece un modo per farli convivere pacificamente e in equilibrio?>>
Direi di sì, non sono parti del cervello mutualmente esclusive. Mettiamola così: credo che l’essere umano sia in grado di operare su diversi orizzonti temporali. Da un lato siamo capaci di controllare le notifiche del cellulare ogni minuto, dall’altro siamo ovviamente in grado di muoverci lungo un arco temporale più esteso, ad esempio quando studiamo per sostenere un esame o facciamo un mutuo per pagare la casa. Negli ultimi 20 e 30 anni, nell’era digitale, abbiamo senza dubbio sviluppato il “cervello marshmallow”, che ha orizzonti temporali di breve o brevissima durata, ora dobbiamo dedicarci al “cervello ghianda”. Siamo dotati di questa facoltà, dobbiamo lavorare duramente per coltivare questo tipo di cervello in tutti gli ambiti, dalla scuola all’economia.
Abbiamo bisogno di sistemi educativi che creino un legame con le generazioni future su cui ricadranno gli impatti delle nostre azioni.
Si potrebbe contestare che il pensiero a lungo termine è roba per ricchi, una sorta di lusso di chi vive nel benessere. Per quelle classi sociali che non hanno l’urgenza di capire come arrivare a fine mese. Cosa ne pensa?
Non sono d’accordo, la classe media, che vive comunque nell’agio, è la più incastrata nel sistema della gratificazione immediata, del consumismo. Ricordo di aver parlato di questo tema con mio padre, un rifugiato polacco arrivato in Australia dopo la seconda guerra mondiale. Mi ha fatto riflettere su fatto che sono proprio le persone rifugiate ad avere una visone a lungo termine più marcata e decisa. Scelgono di lasciare la propria terra, spesso spostandosi in lunghi viaggi pericolosi per garantire ai figli e alle generazioni successive un’esistenza migliore. Scappano da guerre e carestie, ma riescono comunque a mantenere viva l’idea di un futuro, anche se non posseggono nulla. Inoltre, in diverse comunità indigene è diffusa la visione a lungo termine, penso ai Maori della nuova Zelanda che coltivano una connessione profonda sia con gli antenati che con le generazioni future, in una visione temporale che include passato, presente e futuro insieme. Queste comunità non sono certo quelle con maggiore disponibilità economica, anzi, spesso vivono proprio nei gradini più bassi della scala sociale. Quindi se guardiamo fuori dalla classe media, abbiamo molto da imparare.
A quale modello sociale, o movimento, associazione, figura politica, possiamo attingere oggi per ispirarci e maturare una visione a lungo termine?
Se penso all’epoca in cui vivevano i miei nonni, nel 1930, le persone cercavano soluzioni rapide ai problemi del mondo. Si sposavano ideologie, come il comunismo e il fascismo. Oggi invece la visione a lungo termine è rappresentata più da una costellazione di movimenti sociali, associazioni e idee che da un’unica corrente di pensiero. Penso ad esempio al modello di “Doughnut economics” che conosco bene perché è stato creato da Kate Raworth che è la mia compagna. È un modello economico che ribalta la logica della crescita continua a favore di un sistema economico redistribuivo e rigenerativo. Ci sono movimenti che lottano per riconoscere i diritti alla natura, associazioni che si adoperano per garantire diritti costituzionali alle prossime generazioni e molti altri. Tutte queste azioni sono come piccole navi che ci guidano verso il cambiamento.
Chiedersi quotidianamente cosa possiamo fare per essere dei buoni antenati è una semplice abitudine che può diventare esistenziale.
Krznaric, qual è la critica che il suo libro ha ricevuto più di frequente?
La critica principale è che sto promuovendo una prospettiva irrealistica. Siamo troppo centrati sulla visione a breve termine, sulla gratificazione immediata e il capitalismo è così radicato nella nostra cultura da essere ritenuto immutabile. La storia dell’umanità, però, ci insegna che le società mutano. Pensiamo ad esempio all’epoca coloniale e a come i coloni britannici trattavano le popolazioni conquistate. Il potenziale per evolvere c’è, abbiamo tutte le facoltà mentali per lavorare in un’altra direzione, la domanda è se siamo capaci di agire con la rapidità necessaria. Chiedersi quotidianamente cosa possiamo fare per essere dei buoni antenati è una semplice abitudine che può diventare esistenziale.
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