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Il mondo è a corto di sabbia
La sabbia è una risorsa rinnovabile, ma noi non le diamo il tempo. Di questo passo, esauriremo le riserve di sabbia per colpa della nostra fame di cemento.
Di solito la sabbia si associa alle vacanze al mare o alle isole paradisiache, ma facciamo fatica a immaginarla come una risorsa non rinnovabile. Eppure la sabbia è la seconda risorsa più sfruttata al mondo, dopo l’acqua. Ogni anno ne sfruttiamo 15 miliardi di tonnellate e la domanda continua a salire: negli ultimi 30 anni la richiesta d’estrazione è cresciuta del 360 per cento. A questa velocità arriveremo a 40 miliardi di tonnellate nel 2050 e 55 miliardi nel 2060. Un ritmo insostenibile per il nostro Pianeta, considerando i tempi di rinnovamento. La sabbia si forma naturalmente attraverso un processo lentissimo che parte dall’erosione della pietra, viene trasportata dalle acque dei fiumi e dopo un periodo che varia tra i cento e i mille anni raggiunge l’oceano.
Sabbia e cemento per costruzioni, un binomio maledetto
Nella società contemporanea, la sabbia è impiegata in molti modi: ad esempio nella produzione di dentifrici, chip per computer, vetro, pannelli solari. Viene anche usata nell’industria del fracking per incrementare l’estrazione del greggio (e approssimativamente siamo passati da 50 milioni di tonnellate del 2014 a 127 milioni del 2018 solo per questa voce). Ma è il settore delle costruzioni, dell’edilizia il principale affamato di sabbia: ogni tonnellata di cemento richiede circa 7 tonnellate di questo materiale misto a ghiaia. Se consideriamo poi che non tutta la sabbia va bene per il calcestruzzo e che solo quella marina è utile per l’uso edile (i suoi granelli si aggregano meglio), significa che per costruire case, strade e palazzi possiamo fare affidamento sul 5 per cento delle riserve mondiali di sabbia.
Eppure la nostra società ha fame di cemento: come calcolato da Les Echos, in media sono necessarie 200 tonnellate di sabbia per costruire una casa, 3.000 tonnellate per costruire un edificio (come un ospedale) e 30mila tonnellate per fare un chilometro di autostrada. Teniamo conto che nel 2100 la popolazione mondiale sarà aumentata del 21 per cento e sempre più persone vivranno in aree urbane. Ciò significa che aumenterà anche la domanda di calcestruzzo, con il rischio che la sabbia non sarà più accessibile a tutti.
La Cina guida la classifica mondiale del consumo di sabbia, dal momento che ne usa circa il 60 per cento di quella estratta in tutto il mondo. Tra il 2011 e il 2013, lo stato cinese ha usato più cemento di quanto ne abbiano usato gli Stati Uniti in un secolo. Immaginate come dovevano essere gli Stati Uniti a inizio Novecento e poi immaginate tutti gli sfavillanti grattacieli che sono stati costruiti nei decenni: ebbene, parliamo di 4,5 miliardi tonnellate di cemento. I cinesi ne hanno gettate 6,6 miliardi in appena tre anni, trasformando campagne e paesaggi rurali in gigantesche metropoli abitate da decine di milioni di persone.
La Cina detiene anche un altro record: qui infatti si trova la più grossa miniera di estrazione. Stiamo parlando del lago Poyang, da cui si estraggono 980mila tonnellate al giorno. Questo sito è più grande delle tre maggiori cave americane messe assieme. Dal 2001, anno in cui sono iniziati i primi scavi – riporta il National Geographic – il livello di questo vasto bacino è in costante diminuzione. L’estrazione di sedimenti dal lago ha innescato una “pronunciata erosione” con il risultato che il lago si è quasi prosciugato del tutto e portando alla scomparsa di un habitat che accoglieva oltre 500mila uccelli migratori appartenenti a 124 specie diverse.
E poi c’è la moda delle isole artificiali, fatte di sabbia
La prossima volta che siete in spiaggia a costruire castelli di sabbia, pensate che quel materiale che avete tra le mani è merce d’esportazione, richiesta soprattutto per progetti imponenti. L’esempio più eclatante è il sistema di arcipelaghi artificiali al largo di Dubai: la costruzione di Palm Jumeirah ha richiesto 385 milioni di tonnellate di sabbia mentre The World oltre 450 milioni di tonnellate. Esaurita la sabbia dei propri fondali, l’emirato si è visto costretto a comprare sabbia australiana per completare il Burj Khalifa. Per costruire il grattacielo più alto del mondo sono servite 45.700 tonnellate di sabbia eppure il 30 per cento dell’edificio è ancora vuoto, sfitto, inutilizzato.
Ma non c’è solo Dubai a sfruttare la sabbia altrui. Di fronte all’incremento demografico, Singapore ha interrato per oltre 40 anni ampie porzioni di mare con la sabbia acquistata dai Paesi vicini, aumentando la superficie della città di 130 chilometri quadrati, un’estensione pari al 20 per cento dell’intero stato. Nel mondo si tratta del paese con il maggior consumo di sabbia pro-capite (5,4 tonnellate per abitante) e un quinto del suo territorio è stato aggiunto artificialmente importando sabbia da Vietnam, Malesia, Cambogia e Indonesia. Quest’ultima ha aspettato che sparissero 24 isolotti prima che decidesse di interrompere il commercio di sabbia nel 2002. Infatti, fino a quell’anno erano state esportate verso Singapore tra le 250mila e le 300mila tonnellate di sabbia.
Oltre al mercato legale della sabbia, c’è anche quello nero
Quest’ultimo passaggio ci porta a un tema “scottante”: la mafia della sabbia. Sì, perché dietro il commercio legale e i documenti ufficiali, il mercato nero sottrae illegalmente miliardi di tonnellate di sabbia in tutto il mondo. Nelle Maldive i pescatori di sabbia arrivano a profondità di 15 metri per riportare in superficie la sabbia per 12 euro al giorno e in Malesia dozzine di ufficiali sono stati accusati di aver accettato favori sessuali in cambio di sabbia. Ma la più grande organizzazione criminale è attiva in India: lungo il Vasai Creek fino a 75mila uomini lavorano illegalmente nell’estrazione della sabbia, sottraendo due miliardi di tonnellate l’anno, 24 volte la produzione italiana.
Ma non c’è solo l’Asia: metà delle costruzioni in Marocco vengono realizzate con sabbia estratta da spiagge ridotte a distese sassose su cui poi vengono costruiti alberghi che poi, in mancanza di spiagge, non sono attrattivi per i turisti e rimangono vuoti. Anche le spiagge della Giamaica (in particolare quelle del Negril) vengono devastate dal prelievo illegale, gestito da bande criminali locali che sfruttano manodopera a basso costo, dotate di pale e secchi. La stessa cosa avviene in Sierra Leone dove il governo ha iniziato una battaglia contro la criminalità locale, ma le regole risultano del tutto inefficaci: vicino ai luoghi di estrazione sono nate baraccopoli dove si concentrano persone disperate alla ricerca di lavoro e dove i consumi di droghe e alcol vanno di pari passo con la prostituzione.
Il problema tocca anche l’Europa: la Germania ha uno dei fabbisogni di sabbia maggiori e consuma 4,6 milioni di tonnellate l’anno. Tanto che alcune zone costiere, intimorite dal “peak sand”, hanno vietato di costruire castelli di sabbia in spiaggia, per impedire la dispersione di granelli preziosi. Anche l’Italia si trova in una situazione poco felice: si calcola che ogni anno sulle spiagge sarde vengano prelevati quintali di sabbia, raccolti come ricordo dai turisti. Per questo, la regione da una parte e gli ambientalisti dall’altra, con la campagna del Wwf “L’ultima spiaggia”, stanno cercando di mettere un argine a una pratica che si traduce in un danno ambientale impossibile da trascurare.
Di sabbia, dighe e acqua
Il nostro consumo, quindi, non lascia il tempo naturale alla sabbia di rinnovarsi. Ma non basta: nel mondo ci sono 845mila dighe al lavoro che trattengono il 25 per cento della sabbia, fermando la sua corsa verso il mare. Così le cave si esauriscono e la sabbia viene estratta direttamente dai fiumi: succede con il 25 per cento di quella estratta nel mondo. Si calcola che da una diga si possa arrivare ad estrarre 612mila tonnellate di sabbia al giorno.
Quali sono i costi dell’estrazione della sabbia? Intanto quelli legati alla perdita di terreno: tra il 75 e il 90 per cento delle spiagge mondiali sono interessate dall’erosione, sia per i livelli di innalzamento dei mari, certo, ma soprattutto per l’estrazione eccessiva di sabbia. Il quotidiano americano New York Times stima che entro il 2100 l’arcipelago delle Maldive non esisteranno più e in Florida nove spiagge su dieci si stanno già ritirando rapidamente. Ciò significa ingenti danni per il turismo: le aree che per prime saranno interessate da spiagge erose e impraticabili, saranno anche le prime a essere abbondate dai turisti. Secondo uno studio condotto dal Journal of Geophysical Research, il 70 per cento delle spiagge californiane sparirà entro il 2100.
Anche l’agricoltura è minacciata: data la perdita di barriere naturali, l’acqua salata filtra più facilmente nell’entroterra rendendola inadatta alla coltivazione. Allo stesso tempo le draghe distruggono l’habitat di innumerevoli specie marine, mettendo a repentaglio la catena alimentare di plancton e balene. Infine le infrastrutture: l’estrazione di sabbia dalle rive dei fiumi indebolisce le fondamenta delle infrastrutture limitrofe.
Le alternative alla sabbia
Esistono alternative alla sabbia? La risposta è naturalmente positiva, anche se il campo di applicazione è ancora ristretto. Si va dall’impiego di “calcestruzzo riciclato” o “sostenibile” ai mattoni in vetro riciclato, per stare sui metodi più tradizionali (ma con alcuni ammodernamenti) come l’argilla e addirittura la terra battuta: in Abruzzo, Marche e Piemonte ci sono moltissime abitazioni che possono testimoniarlo.
Ci sono poi startup che stanno progettando nuove formule all’insegna dell’economia circolare. Ad esempio Calchèra San Giorgio è un’azienda trentina che studia e produce materiali edili per la ristrutturazione di edifici storici riutilizzando il guscio d’uovo coma materia prima seconda (cioè ottenuta da scarti di lavorazione o da materiali derivati dal riciclaggio dei rifiuti). Oppure ancora le case in paglia di riso che da Biella sono arrivate in Valle d’Aosta e perfino a New York: stiamo parlando di soluzioni che per tenuta sono paragonabili al calcestruzzo, che il più delle volte sposano tecniche di passività energetica (non hanno bisogno di impianti di riscaldamento). Strutture che richiedono meno energia – a partire dalla loro costruzione – inquinando meno e, soprattutto, senza estrarre sabbia.
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