Dal 2008 a oggi 31 raid di polizia hanno salvato 333 persone in condizioni di schiavitù nelle miniere brasiliane. Ora le operazioni sono più difficili a causa di Bolsonaro.
Negli ultimi 13 anni oltre 300 persone sono state salvate dalla schiavitù nelle miniere del Brasile. È quanto rivela un rapporto dell’organizzazione Mining observatory, che ha preso in considerazione i raid di polizia perpetrati dal 2008, contandone 31 per un totale di 333 persone liberate da condizioni di lavoro deprecabili, soprattutto nelle miniere d’oro illegali dell’Amazzonia. Il numero di interventi è in crescita negli ultimi anni ma l’eliminazione del ministero del Lavoro da parte del presidente Jair Bolsonaro sta complicando le operazioni, che ora richiedono più numerosi passaggi burocratici.
Schiavitù e deforestazione amazzonica
La schiavitù non è del tutto debellata in Brasile e questo vale soprattutto per l’area amazzonica. La mappatura degli interventi di polizia di questo tipo nelle miniere del paese, condotta dall’organizzazione Mining observatory nel periodo 2008-2021, ha infatti rivelato che la maggior parte delle operazioni di polizia sono avvenute nelle regioni di Pará, Amapá, Rondônia, Mato Grosso, Bahia, Paraíba e Rio Grande do Norte. Sono soprattutto le miniere illegali di oro quelle più a rischio schiavitù, ma situazioni di questo tipo sono state riscontrate anche nelle cave di altre pietre preziose come ametista, caolino, calcare e stagno.
333 persone in 31 diversi raid di polizia sono state trovate in condizioni lavorative deprecabili, costrette a bere e mangiare sostanze contaminate, sottoposte a turni massacranti, con lunghi arretrati nel pagamento degli stipendi (in nero), prive dei dispositivi di protezione individuali e collettivi. A queste illegalità hanno fatto da contorno altri crimini come la deforestazione selvaggia e il possesso di armi da parte dei gestori delle miniere, a volte riuniti in cooperative ufficiali per avere più forza istituzionale ma anche per mascherare le proprie attività illecite.
Negli ultimi tempi la situazione sembra essere peggiorata: nel 2020 le operazioni di polizia contro la schiavità mineraria sono state dieci, il doppio di quelle del 2017. E anche il 2021 non si è aperto bene da questo punto di vista, con decine di persone già messe in salvo.
Lo zampino di Bolsonaro
L’escalation dell’ultimo decennio di operazioni contro la schiavità mineraria è venuta grazie all’attivismo dello Special mobile inspection group (Gefm), organo creato sotto il ministero del Lavoro. Ma da qualche tempo l’organizzazione dei raid è sempre più difficile. Manca infatti il personale qualificato, dal 2010 non si tiene una campagna di reclutamento massiva di ispettori e ogni anno se ne ritirano fino a 150, senza che vengano rimpiazzati. Oggi ne sono rimasti circa 2mila per tutto il Brasile, molti a causa della pandemia lavorano però da remoto e non riescono a operare in modo coordinato sul terreno.
La schiavitù nelle miniere non può che beneficiare da una tale riduzione dei controlli, mentre a rischio c’è anche la sopravvivenza delle comunità indigene, che vivono costantemente sotto la minaccia delle rivendicazioni estrattive sui loro territori. Solo nel territorio degli indigeni Yanomamici sarebbero almeno 20mila miniere illegali.
These are the open wounds of the Amazon. Deforestation caused by illegal mining spiked 30% in the Yanomami territory in 2020. Instead of protecting Indigenous people, Brazil's president @jairbolsonaro wants to legalize mining in their land. https://t.co/A57l3jK4UQpic.twitter.com/T4RJBEa3gb
A questa situazione si aggiunge poi il fatto che Jair Bolsonaro, presidente del Brasile dal 2019, ha eliminato quel ministero del Lavoro che faceva capo a questo tipo di operazioni, che ora ricadono sotto il ministero dell’Ambiente, richiedendo però numerosi nuovi passaggi burocratici per poter essere implementati. “Abbiamo perso l’autonomia. Ora dobbiamo fornire informazioni con più anticipo e molte delle procedure sono diventate più complicate”, ha sottolineato un coordinatore della Gefm.
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