La schiavitù moderna è un problema reale in varie zone del mondo. E riguarda anche i paesi del G20, perché importano beni che sono frutto di lavoro forzato.
Nel mondo, 50 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù moderna.
È quanto emerge dal Global Slavery Index 2023, redatto da Walk free.
Lo stato in cui la situazione più grave è la Corea del Nord.
Anche i paesi del G20 importano beni che potrebbero essere frutto di lavoro forzato.
Nel mondo, 50 milioni di persone vivono in condizioni di schiavitù moderna. Il dato si riferisce al 2021 ed è allarmante per diversi motivi. Innanzitutto, è gigantesco di per sé: è più alto rispetto alla popolazione di un paese come la Spagna. Come se non bastasse, è aumentato di ben 10 milioni di unità rispetto al 2018. È quanto emerge dal Global Slavery Index 2023, il più completo e autorevole studio sul tema, redatto dall’organizzazione per i diritti umani Walk free.
— Survivor Alliance (@empwrsurvivors) May 25, 2023
Cos’è la schiavitù moderna
Quello di schiavitù moderna è un concetto che racchiude tante condizioni diverse, tra cui lavoro forzato, traffico di esseri umani, matrimonio forzato, pratiche schiaviste, servitù per debiti e alcune forme particolarmente gravi di lavoro minorile. In sintesi, riguarda qualsiasi persona che si trovi in una condizione di sfruttamento e sia impossibilitata a rifiutare, o ad andarsene, a causa di violenze, minacce, raggiri, coercizione o abusi di potere.
Potrebbe sembrare una realtà lontanissima da quella che viviamo noi, fortunati cittadini di paesi occidentali industrializzati. In realtà, sottolinea Walk free, situazioni di schiavitù moderna sono state riscontrate nelle filiere produttive dei beni che potrebbero finire nei nostri negozi, nei nostri armadi o nei nostri piatti. Conoscere il tema e attivarsi è, quindi, una responsabilità di tutti.
Gli stati in cui la schiavitù moderna è più diffusa
Corea del Nord
Eritrea
Mauritania
Arabia Saudita
Turchia
Tagikistan
Emirati Arabi Uniti
Russia
Afghanistan
Kuwait
La realtà del lavoro forzato in Corea del Nord
In Corea del Nord, su una popolazione complessiva di 25,7 milioni di persone, circa 2,7 milioni vivono in condizioni di schiavitù moderna. Una percentuale altissima che non ha eguali nel resto del mondo.
All’esterno traspare poco o nulla delle condizioni di vita in un paese che ha scelto l’isolamento totale, ma proprio Walk free – insieme al Leiden Asia Center – è riuscita a parlare con una cinquantina di disertori. Dalle loro testimonianze emerge come adulti e bambini siano obbligati a occuparsi di mansioni ritenute utili alla collettività, per esempio nell’agricoltura, nell’edilizia e nei cantieri stradali. Tutto questo, senza essere retribuiti. Chi prova a rifiutarsi si vede privare delle razioni alimentari o si vede imporre tasse aggiuntive. Per i prigionieri politici ci sono poi i campi di lavoro.
Non stupisce, dunque, che il regime di Pyongyang non stia facendo nulla per eradicare la piaga della schiavitù moderna. Anzi, il report di Walk free assegna alle iniziative dei governi un punteggio percentuale, dove il 100 per cento corrisponde al massimo impegno. Quello della Corea del Nord è addirittura negativo: meno 3.
Importare prodotti figli della schiavitù moderna
I paesi industrializzati del G20, tra cui l’Italia, sono quelli in cui la schiavitù moderna è assente o quasi. E sono anche quelli in cui la risposta da parte dei governi è più incisiva.
Nonostante ciò, non possono pensare che il problema non li riguardi. Perché si stima che nel 2021 abbiano importato beni che potrebbero essere stati fabbricati in condizioni di lavoro forzato, per un ammontare complessivo di circa 436 miliardi di euro. Un numero che, anche conteggiando l’inflazione, aumenta di circa 57 miliardi rispetto al 2018. La categoria merceologica più a rischio è l’elettronica (227 miliardi di euro), seguita dall’abbigliamento (138 miliardi) e dall’olio di palma (poco più di 18 miliardi).
Profilazione razziale, xenofobia nel dibattito politico e omofobia nel report dell’Ecri. Tra le sue richieste c’è quella di rendere indipendente l’Unar.
La “liana delle anime” è un decotto della medicina indigena dell’Amazzonia che può alterare lo stato psichico di chi la assume, e per questo affascina milioni di persone nel mondo.
Presente al corteo l’attivista svedese ha detto: “Non puoi dire di lottare per la giustizia climatica se si ignora la sofferenza dei popoli emarginati”.