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Chi sciopera nel distretto tessile di Prato e perché
Nel mezzo di una grave crisi, il distretto tessile e dell’abbigliamento lancia l’allarme sui diritti dei lavoratori nella filiera della moda italiana.
- Decine di lavoratori di origine pachistana stanno scioperando a Prato per ottenere condizioni di lavoro regolari ed eque in alcune aziende del distretto della moda.
- Gli scioperi di Prato di questi giorni sono l’ultimo caso a scuotere il distretto, come spiega Luca Toscano, referente del sindacato SUDD Cobas che sta organizzando le mobilitazioni.
- La tensione del settore moda continua crescere a causa di una crisi profonda di tutto il settore, che sta bloccando gli ordini da parte del brand, con un conseguente aumento della disoccupazione e richieste di cassa integrazione nella manifattura Toscana, sia nel tessile-filati che nel confezionamento e nella pelletteria, anche di alta gamma.
“Siamo nati con l’idea di voler sindacare quello che veniva, a torto, considerato insidacalizzabile, ovvero i luoghi di lavoro con persone di origine straniera”, spiega Luca Toscano, uno degli organizzatori degli scioperi di Prato e coordinatore territoriale Prato-Firenze del Sindacato unione democrazia dignità (Sudd) Cobas, una realtà nata sei anni fa nel distretto tessile e di confezionamento di Prato. Da domenica 6 ottobre il sindacato è al fianco di qualche decina di lavoratori pachistani di alcune aziende del comparto moda pratese, che scioperano a oltranza per ottenere qualcosa di molto semplice, ovvero un contratto regolare di 40 ore la settimana. Già dai primi giorni di sciopero alcune aziende hanno aperto la trattativa per la regolarizzazione dei lavoratori.
“Sono ragazzi pachistani molto giovani, di 22, 23 anni”, spiega Toscano, “che lavorano in cinque microimprese, con meno di 12 addetti, che si occupano di stiratura, logistica, taglio di zip, cucitura di piccoli accessori in pelle”. I proprietari di queste aziende sono cinesi e questo ha scatenato grandi titoli sui giornali, “ma le aziende loro clienti sono italiane ed europee”, commenta Toscano, “in questo caso del settore pronto moda- fast fashion, e sono totalmente conniventi con un sistema che vive grazie allo sfruttamento dei lavoratori, perché i clienti finali strozzano le imprese fornitrici con prezzi al ribasso. Pretendono tariffe per le quali è matematico che si debba far lavorare le persone nell’illegalità. In passato abbiamo lavorato in casi con titolari cinesi e titolari pachistani, per noi questo tema non ha alcuna rilevanza”.
Lo scenario dietro gli scioperi di Prato
Il distretto pratese, legato a tessile e confezione abbigliamento, con tutti i servizi connessi, è estremamente frammentato, con una miriade di aziende diverse, piccole, medie e grandi, che servono clienti del fast fashion, ma anche del lusso: “E non c’è alcuna differenza nel modo in cui vengono trattati i lavoratori”, commenta Toscano, “perché il sistema è lo stesso, come possiamo confermare sul caso Montblanc”. Si tratta di un caso ancora aperto, ripreso anche da testate internazionali come Reuters: la Z Production di Campi Bisenzio avrebbe perso l’appalto Montblanc dopo che i lavoratori si sono sindacalizzati, mentre il marchio di proprietà del colosso svizzero Richemont ha scelto di delocalizzare altrove la produzione di accessori in pelle (il sindacato e i lavoratori sono andati a protestare fino a Ginevra con i cartelli “Shame in Italy”).
Lo sciopero a oltranza è l’unica soluzione: “Quando lavori in nero, quando non hai nulla, non puoi interrompere la mobilitazione, o arrivi a ottenere qualcosa o sei fuori, perdi tutto”, spiega Toscano, “abbiamo avuto casi di successo e regolari assunzioni, anche dopo scioperi lunghi diversi mesi. Per noi è importante sfatare la narrazione che vorrebbe queste persone di origine straniera inerti di fronte alle ingiustizie, come se decidessero da soli di sfruttarsi. Non è assolutamente vero, hanno bisogno di accedere agli strumenti di lotta che in Italia sono a disposizione per autodeterminarsi”, conclude Toscano.
La comunità pachistana nel distretto è in forte crescita negli ultimi anni, per la maggioranza uomini giovani, costretti, come nel caso di questi scioperi, a lavorare 80 ore la settimana senza alcuna tutela, tutti i giorni in condizioni di insicurezza. Gli audit da parte dei brand non sono efficaci, come è stato evidente anche nei casi di caporalato e sfruttamento venuti alla luce a Milano, mentre gli ispettorati del lavoro mancano di risorse oppure, spiega sempre Toscano, “le sanzioni che riescono a comminare non sono deterrenti sufficienti, perché le aziende mettono questo rischio a bilancio, se una volta all’anno o anche meno vieni sanzionato ma troppo poco, è economicamente più conveniente andare avanti nello stesso modo”.
“La catena di fornitura della moda in tutta Italia sta soffrendo molto, a causa di un imponente calo degli ordini. Non ho mai assistito a un periodo così nero per il distretto pratese, nemmeno nel 2008”, spiega Silvia Gambi, founder di Solo moda sostenibile e docente di gestione della catena tessile e moda Università di Firenze, “in questo contesto possono svilupparsi delle tensioni. Prato è il distretto tessile e abbigliamento più grande d’Europa, ci sono 6mila aziende, non si può generalizzare. È giusto impegnarsi per riportare nella legalità le aziende che non rispettano le regole, ma allo stesso tempo vanno sostenute quelle che operano in maniera responsabile”. I loro “cugini” dell’area di Scandicci, dedita alla pelletteria di altissima gamma, sono in eguale crisi, con diverse aziende in cassa integrazione, persino quelle che forniscono i brand più noti del lusso.
La crisi del distretto di Prato e non solo
“La filiera moda ha una particolarità unica”, continua Gambi, “i brand che vendono non possiedono, nella maggioranza dei casi, gli stabilimenti dove producono. Nei momenti di crisi i brand diminuiscono o cancellano ordini senza grande preavviso, a fornitori con cui magari collaborano da tantissimi anni, da più di una generazione, nel caso di aziende famigliari. Questo rende la programmazione della produzione difficile per una manifattura che si trova a soffrire, senza però avere in mano il potere o gli strumenti per uscire dalla crisi”.
Una crisi conclamata e talmente estesa da aver fatto muovere il Comune di Prato stesso per chiedere al Parlamento ulteriori finanziamenti per la cassa integrazione, con le richieste di disoccupazione che continuano ad aumentare da diversi mesi. “Una crisi generalizzata sia di chi fa filati, come noi, che di chi si occupa di servizi per la moda conto terzi”, conferma Gabriele Innocenti, seconda generazione alla guida di Filati Omega, azienda storica e d’eccellenza del territorio che cerca di coniugare la tradizione pratese alla sostenibilità contemporanea, attraverso prodotti rigenerati e attenzione ai consumi idrici e di energia. “Bisogna smobilizzare delle risorse a livello centrale per far fronte a una crisi senza precedenti che ha colpito tutti per diversi fattori, sia chi opera nella fascia bassa che di alta gamma. Dai magazzini pieni a causa dei sovra ordini del post covid, agli aumenti dei prezzi dell’energia e delle materie prime, fino alle guerre che hanno di fatto chiuso diversi mercati”, continua Innocenti, che specifica quanto ancora pesino i danni dell’alluvione di un anno fa nel distretto (nella sua azienda, considerata medio-piccola, i danni rendicontati sono di oltre tre milioni di euro). “Noi contiamo un calo di fatturato del 32 per cento rispetto a un anno fa. Tuttavia, temo si tratti di una crisi strutturale che vada gestita in modo più complesso: i brand hanno diminuito drasticamente gli ordini, perché i pezzi non escono dai negozi. Questo è dovuto anche a un cambio di abitudini delle persone, che fanno altre scelte di acquisto. Bisogna ripensare i paradigmi produttivi della nostra economia per come la conosciamo”.
Il distretto di Prato è estremamente stratificato e abitato da diversi attori, la storica manifattura italiana del filato-tessile, gli imprenditori cinesi che fanno servizi conto terzi e confezionamento di abbigliamento pronto moda, fino ai nuovi titolari di origine pachistana. Finora tutti si sono sentiti parte di realtà separate, con strategie di business diverse, mentre oggi per la prima volta la crisi sembra aver investito tutti. La soluzione non può essere far venire a mancare i diritti fondamentali dei lavoratori, ma agire in sinergia, laddove possibile, per ridisegnare il sistema produttivo e il rapporto con i committenti finali.
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