Da dove arriva la rabbia del Senegal. Uno sguardo su un paese allo stremo
Le proteste notturne a Ngor, quartiere della grande Dakar, Senegal
Le proteste di marzo in Senegal hanno aperto un vaso di pandora. Economia, politica, migrazioni e diritti delle donne: qual è la storia e la situazione del paese.
Le proteste notturne a Ngor, quartiere della grande Dakar, Senegal
Sabato 13 marzo doveva essere un nuovo giorno di manifestazioni in Senegal, ma l’intervento dei leader religiosi, che hanno sedato nuove proteste, ha chiuso il discorso. Le strade erano insolitamente vuote. Nel centro città pattuglie della gendarmerie e dell’esercito assicuravano la sicurezza agli obiettivi più sensibili, mentre nelle aree più ricche della grande Dakar, come a Les Almadies, i negozi riaprivano, scommettendo su una progressiva distensione.
Il caso giudiziario come scintilla
La scintilla che ha fatto scoppiare le manifestazioni nei principali centri abitati del Senegal è stato il fermo di Ousmane Sonko, avvenuto il 3 marzo. Il giovane leader del partito di opposizione Pastef, arrivato terzo alle ultime elezioni del 2019, doveva infatti presentarsi in udienza al palazzo di giustizia per rispondere dell’accusa di violenza sessuale ai danni di una giovane ragazza di un centro massaggi, ma la scelta di cambiare tragitto rispetto a quello prestabilito dalle autorità, è stata giudicata un intralcio all’ordine pubblico e tentata insurrezione. Accusa che è valsa la custodia cautelare per il politico a cui il 26 febbraio era stata inoltre tolta l’immunità parlamentare.
In questo senso Ousmane Sonko ha sempre rigettato le accuse, definendole “politicamente motivate” e spostando l’attenzione sull’interesse del presidente Macky Sall, in carica dal 2012, nell’eliminare le opposizioni. Tuttavia se da una parte il rilascio su cauzione di Ousmane Sonko da parte dei giudici, avvenuto lunedì 8 marzo, ha allentato la pressione, sgonfiando le manifestazioni, dall’altra l’accusa al politico è stata confermata.
Le proteste di marzo
Il caso Sonko ha aperto un vaso di pandora in Senegal, riempito di rabbia e frustrazione. Un contenitore tenuto sigillato per anni, ma pronto ad esplodere visto l’aggravarsi della crisi economica. Le proteste si sono diffuse a macchia d’olio in gran parte del territorio senegalese, anche se gli scontri, per intensità e violenza, hanno interessato maggiormente aree depresse come le periferie di Dakar e le regioni storicamente e politicamente lontane come la Casamance. Intanto in tutto il Paese si contano le conseguenze degli scontri. Il totale dei morti è salito a dieci secondo il Governo e undici secondo i manifestanti. Stando invece ai dati della croce rossa, i feriti sarebbero oltre 590. Un conteggio che si è aggravato soprattutto nelle date comprese tra il 4 marzo e l’8 marzo. Il periodo di massima tensione in Senegal.
Ma oltre agli scontri tra manifestanti e polizia, Dakar e altre città del Senegal sono state protagoniste di saccheggi e distruzione soprattutto ai danni dei centri commerciali Auchan e di numerosi distributori Total. Le due aziende francesi sono state prese di mira in modo massivo e continuativo, mentre altri supermercati, come il Casino, sono stati lasciati intatti. Sui social network il tam tam di immagini di carrelli pieni e corse era costante. “Non ce l’abbiamo con i francesi, ce l’abbiamo con i nostri politici che si prostrano a Parigi”, le parole di un ragazzo, che preferisce rimanere anonimo, ai lati della protesta notturna scoppiata giovedì 4 marzo a Ngor. “Siamo indipendenti sulla carta ma non lo siamo mai stati veramente. Vogliamo poter decidere del nostro futuro”.
Vogliamo poter decidere del nostro futuro
E se da una parte la protesta, almeno nel suo riflesso sui social media, è impregnata di un certo populismo nei confronti di Parigi, dall’altra l’ingerenza francese è un reale motore di rabbia, anche e soprattutto per i modi con cui avviene la penetrazione economica.
In questo senso i supermercati Auchan sono un esempio calzante. L’azienda di Croix, già target di proteste nel 2018, ha infatti deciso di puntare in Senegal su centri commerciali di prossimità, in concorrenza quindi con i piccoli negozianti. I prezzi più bassi, hanno quindi spostato i consumatori verso gli scaffali Auchan, generando rabbia e perdite importanti per i venditori al dettaglio. Produzione e distribuzione sono problemi reali e generali che interessano gran parte dei Paesi dell’Africa Subsahariana. Intanto i rappresentanti Auchan hanno dichiarato di aver avuto perdite per il 70 per cento, con un rischio reale per le centinaia di impiegati senegalesi, mentre Total parla di perdite tra il 20 per cento e il 30 per cento da gennaio.
In the wealthiest part of town this is what is left of the supermarket. Children picking up what they can- this protest is not just about Sonko it’s about those that feel ignored and left behind by the state pic.twitter.com/0c9Wa54PtG
Uno dei punti di svolta nell’impasse senegalese è avvenuto lunedì 8 marzo. Davanti al palazzo di giustizia, dove era in corso la prima udienza di Sonko riguardo al caso della violenza, c’era una palpabile tensione. I manifestanti, posizionati a circa cento metri dall’edificio scandivano cori e canti come “Sonko libero”, “Macky Sale dimettiti” o “libertà per tutti gli attivisti”. I poliziotti in tenuta antisommossa preparavano i lacrimogeni, ma il tremito delle mani tradiva la paura di nuovi scontri. Lo stallo è finito intorno a mezzogiorno, quando l’avvocato di Sonko è sceso in strada, accerchiato dalle telecamere, per comunicare il rilascio del giovane politico di Thies. Poi un boato, la corsa di centinaia di manifestanti davanti al palazzo di giustizia, la festa e la sensazione di vittoria.
Nelle ore e nei giorni successivi al ritorno a casa del politico si susseguono diversi avvenimenti indicativi sullo stato del Paese. La manifestazioni, organizzate dal Movimento per la Difesa della democrazia (M2D), il collettivo che riunisce diversi partiti di opposizione e gruppi della società civile, che dovevano durare tre giorni, da lunedì 8 a mercoledì 10 marzo, vengono sospese. Stessa cosa accade per la protesta organizzata per sabato 13 marzo. L’intervento decisivo è dei leader religiosi: cristiani e musulmani uniti. Ma lo stop determinante, come spiegato anche in una comunicazione dal M2D, viene dal Califfo generale della confraternita dei Mourides, Serigne Mountakha Mbacké. I religiosi di Touba, città santa del Senegal con uno status speciale, hanno così deciso di intervenire in modo diretto nelle manifestazioni. L’accettazione della richiesta è l’ulteriore prova dell’influenza dei Mourides nella scena politica del Paese.
I settori economici del Senegal, un Paese allo stremo
Nonostante non si protesti più, le ragioni della rabbia rimangono sul campo. Il Senegal è un Paese in difficoltà economica. Il fattore della pandemia da Covid-19 ha intaccato diversi settori vitali per il Pil del paese, tra cui il turismo. Nel 2017 gli accessi nel Paese di turisti stranieri erano circa 1 milione e 300mila. Un settore che generava decine di migliaia di posti di lavoro e che valeva circa il 4 per cento del Pil. Un dato relativamente basso, ma su cui il Governo aveva intenzione di lavorare per mantenere stabile la crescita economica.
Gli obiettivi del Ministero del turismo per il 2023 erano di posizionare il Paese tra le prime cinque destinazioni del continente, potenziando il settore e le infrastrutture del territorio fino a raggiungere il 10 per cento sul Pil. Il crollo del 2020, e presumibilmente del 2021, ha ricadute reali in tutti i settori affini. Il trasporto aereo su tutti, con la compagnia Air Senegal che ha ridimensionato l’organico, oppure con i grossi tagli alla privata Transair. Colpito economicamente anche il nuovo aeroporto Blaise Diagne di Dakar. Inaugurato nel 2017 lo scalo fiore all’occhiello del rilancio del Paese, costato più di mezzo miliardo di dollari, doveva imporsi a livello regionale come punto di snodo per i viaggiatori in tutta l’area. Ad oggi però la capacità dichiarata di dieci milioni di passeggeri è ancora lontana dall’essere raggiunta.
Nonostante non si protesti più, le ragioni della rabbia rimangono sul campo.
Più in generale, le stime sul prodotto interno lordo del 2020 parlano di un forte rallentamento rispetto all’anno precedente. Nel 2019 il Paese, nonostante una contrazione rispetto al 2018, cresceva al ritmo di +5,2 per cento. Oggi gli scenari sull’anno appena passato raccontano di una crescita tra il +0,1 per ento, nello scenario peggiore, e un +2,8 per cento in quello migliore. Preoccupa inoltre il disavanzo pubblico che dovrebbe almeno raddoppiare nel 2020, a causa di minori entrate e di maggiori spese (8 per cento) non incluse nel budget.
Ma ciò che ha veramente accelerato il processo di impoverimento di numerose famiglie in Senegal è la questione delle rimesse della diaspora senegalese(ovvero l’invio di denaro dall’estero da parte degli emigrati alle loro famiglie in patria, ndr.). Nel 2019 il denaro guadagnato dai senegalesi nel mondo e rimandato nel Paese di origine valeva il 10 per cento del Pil. Oggi, causa pandemia e crisi globale, i rubinetti si sono decisamente chiusi. Stando alle parole del ministro delle Finanze, il Senegal si aspetta una contrazione delle rimesse per oltre il 30 per cento.
In una situazione di estrema vulnerabilità, anche altri settori vitali per il Paese potrebbero entrare in crisi, come l’allevamento. Oppure, come nel caso della pesca tradizionale, essere ancora di più soggetti alla penetrazione economica estera. Quest’ultimo esempio è particolare fonte di preoccupazioni da parte della popolazione. La pesca tradizionale equivale al solo 4 per cento del Pil del Paese, ma impiega il 17 per cento della popolazione e nutre circa il 50 per cento. Dati enormi, messi in crisi dall’arrivo, ormai più di un decennio fa, di flotte di pescherecci battenti bandiere estere, soprattutto cinesi, che operano spesso nell’illegalità e che tramite la pesca intensiva svuotano i mari dell’Africa occidentale.
Un fenomeno infatti che colpisce non solo il Senegal, ma anche la Mauritania, il Gambia, il Ghana e altre nazioni che si affacciano sul Golfo di Guinea. Le oltre 19mila piroghe senegalesi si trovano infatti a dover competere con concorrenti sleali che usano i mari, eccedendo nella pesca, per esportare il prodotto nel Paese d’origine. Si stima, dati del 2018, che davanti alle coste dell’Africa occidentale stazionino più di 500 imbarcazioni cinesi. Un danno economico e ambientale gravissimo che ricade e ricadrà interamente sulle spalle dei Paesi dell’Africa occidentale.
Isole Canarie o morte
E in una concatenazione di cause ed effetti, in cui la miccia è composta da molti elementi, il tema immigrazione torna centrale. Non è infatti un caso che se negli ultimi anni ci sia stato un assestamento, o un calo percentuale, delle partenze, nel 2020 il numero è tornato leggermente a crescere, almeno in termini assoluti. Ma più dei numeri sconvolge la metodologia. I problemi economici diminuiscono infatti le risorse per le partenze e quindi si riaprono rotte sempre più pericolose.
Nel 2020 una sequela di naufragi ha provocato più di 1.800 morti e riacceso l’attenzione sulla poco conosciuta “ruta canaria”, la rotta delle Canarie. L’anno scorso sulle isole Canarie sono sbarcate quasi 20mila persone arrivate con imbarcazioni di fortuna, spesso piroghe provenienti dal nord del Senegal attorno a Saint Louis o da M’bour, città costiera a sud di Dakar. Un dato enorme se comparato ai 2.700 arrivi del 2019 e sintomo di una crisi sociale imperante.
A Thiaroye sur mer, cittadina di pescatori della cintura di Dakar, tutti conoscono almeno una persona che ha tentato di migrare in Europa. Qui la ruta canaria è stata battezzata col motto “Barça ou Barsakh”, “Barcellona o morte”. “La prima volta mi hanno fermato in Libia, la seconda, la barca è affondata non lontano dalle isole. Ho rischiato di morire e ho rinunciato per ora”, il racconto di Cheikh che ha vissuto sulla sue pelle l’esperienza del viaggio. “In quel percorso lungo 1.500 chilometri tra Senegal e Spagna ci sono gran parte delle ragioni delle proteste”.
In quel percorso lungo 1.500 chilometri tra Senegal e Spagna ci sono gran parte delle ragioni delle proteste
Un quadro politico che genera rabbia
Ma oltre alla questione economica, in primo piano, le manifestazioni si sono impregnate inevitabilmente di questioni politiche. Il Senegal definito spesso dai media “il Paese più stabile della regione”, riflette problemi endemici presenti anche in altre nazioni dell’area. Se da una parte infatti il suo territorio non è mai stato investito da guerre (senza considerare la regione della Casamance, interessata comunque da un conflitto a bassa intensità) e non ha mai conosciuto i conflitti intercomunitari e la presenza jihadista dei suoi vicini, come il Mali, dall’altra ciò per cui oggi si protesta riflette la rabbia verso un sistema politico-economico-clientelare che è diretta emanazione della struttura del Paese.
Nelle voci dei manifestanti emerge un senso di regressione del pluralismo democratico. Durante il mandato del Presidente Sall, oltre a Sonko, ci sono stati altri due importanti episodi di oppositori estromessi dalla politica per casi giudiziari: nel marzo 2013, Karim Wade, ex ministro e figlio dell’ex-presidente Abdoulaye Wade, e nel marzo 2017, Khalifa Sall, ex-sindaco di Dakar, condannati entrambi per appropriazione indebita e corruzione. “Devono smetterla di incarcerare e imbavagliare oppositori e chiunque la pensi diversamente. È uno schema che usano sempre ormai”, sostiene ancora insoddisfatto il giovane Cherif, mentre si allontana dal Palazzo di Giustizia dopo aver festeggiato il rilascio di Ousmane Sonko.
Ci sono poi i guai familiari di Sall. Nel 2019 il fratello del Presidente è finito al centro delle critiche dopo un’inchiesta giornalistica. Nell’indagine, pubblicata da Bbc Panorama e Africa Eye, in cui si rivela come la British Petrolium e la Timis Corporation, gestita dal magnate degli affari rumeno-australiano Frank Timis, si siano aggiudicati i giacimenti di petrolio off shore, c’è anche un passaggio chiave in cui si dimostra che la Timis Corp. nel 2017, attraverso un trust offshore di proprietà di Frank Timis, ha segretamente pagato 250.000 dollari a una società di proprietà di Aliou Sall, che si diceva fosse “per le tasse dovute al governo senegalese.
Un terremoto che ha colpito in prima persona la figura di Sall, le cui campagne elettorali erano improntate sulla lotta alla corruzione, e che ha nel 2019 costretto Aliou Sall alle dimissioni dalla direzione della Caisse des Depots et Consignation, ente pubblico a statuto speciale a cui erano state affidate missioni di interesse generale a sostegno delle politiche pubbliche.
Nonostante il Senegal sia in una posizione migliore dal punto di vista della corruzione rispetto ai suoi vicini, il Paese soffre ancora per questo problema endemico. Secondo i dati di Transparency international è il 65esimo al mondo come indice di percezione della corruzione, mentre, stando al campione, il 15 per cento della popolazione ha pagato una tangente nei dodici mesi precedenti.
Le accuse ad Ousmane Sonko, un pericolo per le donne senegalesi
Il caso Sonko, le azioni dei protagonisti e le proteste sono una matrioska al cui interno si racchiude una fotografia del Paese. Il caso penale è parte di tutto questo, ma la straordinarietà degli eventi successivi ha inevitabilmente spostato l’attenzione sulle proteste. Il Paese si è spaccato, da una parte chi crede esista una manipolazione politica, dall’altro chi non è d’accordo con i manifestanti. Tuttavia il caso della donna è stato per molti versi sommerso dalla questione politica. Eppure nel Paese persiste un problema di genere, sotto molti punti di vista, e il patibolo mediatico che in questo momento sta subendo colei cha denunciato rischia di divenire un boomerang per altre donne. “Lei e la sua famiglia sono state sottoposte a un’enorme attenzione da parte dei media”, le parole di Ousmane Diallo, un ricercatore dell’Africa occidentale per Amnesty International a Dakar, intervistato dal Washington Post. “Le persone stanno trascinando il suo personaggio nel fango, ma dovrebbe spettare ai tribunali decidere cosa è vero e cosa è finzione in questo caso”.
Nonostante un grosso sforzo di sensibilizzazione e coinvolgimento tra partner internazionali e istituzioni, il Senegal è ancora al 168esimo posto su 189 nell’indice globale di disuguaglianza di genere (appena una posizione avanti l’Afghanistan). Inoltre permane, nonostante i miglioramenti degli ultimi vent’anni, un problema cronico legato al matrimonio precoce e alle mutilazioni genitali femminili. Le violenze sono poi un tasto delicato. Secondo “Gender, Institutions and Development”, il 78 per cento delle donne senegalesiha subìto almeno una volta nella vita di violenze fisiche o psicologiche, mentre il 56,6 per cento delle donne pensa che sia giustificato in determinate circostanze l’uso della violenza nel rapporto.
Verso le elezioni del 2024
Aspetti economici, politici, diritti umani e frustrazione sociale: il quadro senegalese è complesso. Per quanto oggi, nei vari quartieri di Dakar e nelle altre città del Paese, la vita riprenda un regolare percorso, anche dopo la decisione di spostare il coprifuoco (misura sanitaria per il contenimento della Covid-19) dalle 21 alle 24, i nervi restano scoperti.
Lo sguardo corre lontano: alle prossime elezione del 2024. La data che sancirà la fine del ciclo di Macky Sall. Sembra infatti sempre più difficile, soprattutto viste le proteste, che il Presidente segua l’esempio dei suoi colleghi di Conakry e Costa d’Avorio, modificando la costituzione per potersi ripresentare per un terzo mandato. Le reazioni della piazza rimangono un monito troppo forte.
La scarcerazione di Narges Mohammadi è avvenuta per motivi di salute e durerà tre settimane. Cresce la pressione sul regime dell’Iran per renderla definitiva.
Migliaia di persone sono scese in strada contro la decisione del governo di sospendere i negoziati per l’adesione all’Unione europea fino al 2028. Violenta la reazione delle forze dell’ordine. La presidente della Georgia rifiuta di lasciare il mandato finché non verranno indette nuove elezioni.
I ribelli jihadisti hanno conquistato Aleppo e altre città della Siria nordoccidentale, senza incontrare grande resistenza delle forze di Assad. Un’offensiva che non è casuale.