Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Sep Jordan, il brand che dà una nuova vita alle rifugiate palestinesi
Il primo brand tessile nato in un campo profughi palestinese è un ponte fatto di ricami tra l’Italia e il Medioriente per aiutare i rifugiati.
- Sep Jordan è un brand che dà lavoro a oltre cinquecento lavoratrici del campo profughi di Jerash, in Giordania.
- La Palestina ha una fortissima tradizione in fatto di ricamo, più che una semplice decorazione, è un’arte dai significati profondi e dei precisi metodi di produzione.
- Sep Jordan, oltre a dare un equo compenso ai suoi lavoratori, offre corsi e attività all’interno del campo in base agli interessi e alle richieste dei rifugiati.
Venti anni in finanza, dieci a Londra e dieci a Bruxelles, poi il cambio vita. Roberta Ventura ha fondato Sep Jordan per cambiare le cose un passo alla volta, senza fare rivoluzioni, ma migliorando concretamente la vita di molte persone. Sep sta infatti per progetto impresa sociale (Social enterprise project) ed è un’azienda di moda e lifestyle di lusso con un forte focus sull’impatto sociale.
Nel 2013 Sep è stata la prima azienda privata a essere fondata nel campo “Gaza” di Jerash, in Giordania, e impiega 500 artisti del ricamo, tutti rifugiati. Questo significa indipendenza economica per centinaia di donne e per le loro famiglie, cosa che ha portato Sep a ottenere nel 2020 la B Corp, una certificazione che attesta la buona performance ambientale e sociale di un’azienda.
“Chi vive in un campo profughi deve cercare come può di dissociarsi dalla sua situazione di precarietà, incertezza e anche umiliazione costante. Creare opportunità di lavoro su quello che è il loro patrimonio culturale è molto importante per me. Siamo partiti con cinquecento donne palestinesi, ma il concetto è ripetibile e scalabile in tutti i luoghi del mondo dove c’è una forte tradizione tessile, o legata al ricamo».
L’intervista a Roberta Ventura di Sep Jordan
Com’è nata l’idea di fondare un brand in un campo profughi?
A Londra facevo la broker, mentre a Ginevra la portfolio manager in un fondo di investimenti. In tutto questo tempo mi è capitato di analizzare a fondo, e anche di investire, nel settore del lusso imparando moltissimo sia sulle strategie aziendali che sui prodotti. Parallelamente, in tutti in questi anni, sia io che mio marito che è economista, abbiamo sempre fatto donazioni ai campi profughi ma, monitorando costantemente la situazione, ci rendevamo conto che queste nostre azioni di fatto non cambiavano granché nella vita delle persone.
In questi campi c’è un’altissima incidenza di depressione cronica ad esempio, e su questo le donazioni sono ininfluenti. Quindi abbiamo cercato un modo diverso di poter dare il nostro contributo e così è nato Sep. L’obiettivo è stato fin da subito quello di portare migliaia di rifugiati a uscire dalla condizione di povertà e, per realizzarlo, abbiamo messo a frutto le nostre competenze nel settore privato. Inizialmente però ci siamo chiamati “project” perché era appunto un progetto, non sapevamo se poi saremmo stati veramente in grado di trasformarlo in qualcosa di più.
E invece…
Nel 2013 abbiamo avuto l’idea, nel 2014 siamo partiti con 20 ricamatrici e oggi sono più di cinquecento le persone che collaborano con noi. Per due anni è stato un progetto a latere del mio lavoro, poi nel 2016 ho dato le dimissioni e oggi mi dedico anima e corpo allo sviluppo del brand.
Nel 2020 poi è anche arrivata la certificazione come B Corp…
Esatto, per oltre un anno sono state effettuate delle audit molto approfondite durante le quali vengono valutate le condizioni dei lavoratori, per poter rilasciare o meno la certificazione. Noi paghiamo molto bene: c’è un premio tra il cinquanta e il cento per cento rispetto al prezzo di mercato del ricamo per quanto riguarda le ricamatrici, e un multiplo del salario minimo per i nostri impiegati, che sono tutti rifugiati, non ci sono expat.
E poi c’è da dire che una cosa è pagare bene e correttamente e l’altra è il modello di business. Il rischio di impresa, nel nostro caso, è tutto in capo a Sep: le lavoratrici, una volta passato il controllo qualità del prodotto, vengono pagate ogni lunedì, indipendentemente che il pezzo si venda oppure no. Questo non succede nella maggior parte delle realtà che operano nei campi. Venendo dall’investment banking credo molto nel discorso del bonus a fine anno, che nel mondo delle banche è il verbo. Anche noi a fine anno elargiamo un bonus alle artiste ricamatrici che hanno lavorato di più e meglio. Non solo, offriamo un corso di inglese per i bambini del campo tenuto da una ragazza che lo ha imparato, ma che senza questo impiego sarebbe stata disoccupata. E poi offriamo workshop in base alle loro richieste: si passa dalla nutrizione a interventi mirati per far sì che le donne si possano difendere dalla violenza domestica che nei campi purtroppo è qualcosa di molto diffuso.
Come mai avete scelto di puntare il focus del brand sul ricamo?
Perché la tradizione palestinese in questo senso è fortissima. L’arte palestinese del ricamo ha raggiunto il suo picco verso i primi dell’Ottocento, con colori e pattern stupendi e diversi a seconda delle regioni di provenienza, o dei messaggi che volevano essere trasmessi attraverso gli abiti. I ricami servivano ad esempio anche a indicare la condizione in cui una persona si trovava: se si stava per sposare, oppure se era in lutto. Tutto questo si è perso con le guerre del 1948 e del 1967, quando molti palestinesi si sono trovati nella condizione di dover abbandonare le proprie terre lasciandosi dietro tutto, comprese le tradizioni. Molti di loro hanno imparato a ricamare nei campi profughi, perdendo però un po’ degli elementi tradizionali e della precisione che caratterizzava questo lavoro.
Ecco perché nel campo abbiamo creato un’accademia. Lì delle signore che sono state a loro volta formate, insegnano a ricamare secondo la tradizione palestinese più pura, ovvero senza nodi e senza fili che cadono nella parte posteriore del ricamo, che deve essere bella e pulita tanto quanto quella davanti. Tutte queste caratteristiche non sono solo estetiche, ma hanno anche una loro funzionalità, ad esempio quella di non far sciupare i capi durante il lavaggio. Ricamare così è molto più difficile, richiede tempo e precisione. Il valore aggiunto però è che un che un pezzo fatto con questa tecnica rimarrà invariato per centinaia di anni.
Patrimonio palestinese, ma materiali italiani…
Abbiamo scelto di fondere quelli che sono i loro motivi tradizionali con un gusto italiano e soprattutto con materiali italiani, come il lino e il cashmere. Il nostro obiettivo è quello di essere un brand ponte tra l’Italia e il Medioriente: con un dna particolarmente forte, ma anche con una certa versatilità. Il tutto a livelli altissimi, sia dal punto di vista dei materiali – il nostro cashmere viene da produttori umbri, la terra di Brunello Cucinelli, e il lino da Prato – sia da quello delle tecniche impiegate.
Di recente Sep ha inaugurato la prima boutique a Milano, un passo decisamente importante…
Aprire un monomarca in Italia è stato fin da subito uno dei nostri obiettivi. Il primo negozio lo abbiamo aperto ad Amman, in Giordania, perché il progetto è nato lì. Poi ne abbiamo aperto un altro a Ginevra, dove viviamo e dove abbiamo una serie di partnership, tra cui quella con l’ Unhcr; poi Berlino, perché il consumatore tedesco è molto attento all’impatto sociale dei suoi acquisti, e infine Milano.
Siamo appunto una fusione tra l’Italia e il Medioriente e credo che adesso il mercato italiano sia pronto per un tipo di prodotto come il nostro, che è sì un prodotto di lusso, ma che racchiude una storia. Ognuno dei nostri pezzi è firmato dalla persona che lo ha ricamato. La Camera della moda in primis sta portando avanti un discorso molto importante sull’impatto sociale delle collezioni, tanto che lo scorso anno siamo stati invitati a presentare Sep Jordan durante la Fashion week di Milano. Questo ci ha dato finalmente la spinta per aprire lo store.
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