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Silvia Turzio e la sua VillageCare, un sostegno concreto per i figli caregiver
Piemontese, classe ’67, trasferitasi a Milano per studiare Economia e commercio presso l’università Cattolica, con specializzazioni al Mit di Boston (Digital transformation), alla Harvard medical school (Caregiving management), e all’università di Edimburgo (Filosofia), Silvia Turzio è co-fondatrice di VillageCare, una piattaforma online che si pone come una bussola per i figli che accudiscono i genitori
Piemontese, classe ’67, trasferitasi a Milano per studiare Economia e commercio presso l’università Cattolica, con specializzazioni al Mit di Boston (Digital transformation), alla Harvard medical school (Caregiving management), e all’università di Edimburgo (Filosofia), Silvia Turzio è co-fondatrice di VillageCare, una piattaforma online che si pone come una bussola per i figli che accudiscono i genitori anziani.
Lei stessa rientra in questi ranghi, muovendosi costantemente tra Milano e Novara, dove vivono i suoi genitori. Ma è un’esigenza davvero comune in un paese come l’Italia, la cui popolazione è tra le più longeve al mondo. Sono tanti gli elementi che giocano a favore della qualità della vita: la dieta mediterranea, il clima mite, l’elevata socializzazione e anche la disponibilità economica. Secondo un rapporto Censis infatti, in media la ricchezza degli anziani supera del 13,5 per cento quella della popolazione. Tuttavia, gli over 65 non autosufficienti sono il 20,7 per cento (parliamo di oltre 2,8 milioni di persone). Una percentuale che, tra gli over 75, sale fino a un terzo. Persone che hanno bisogno di attenzioni costanti, garantite per lo più dai figli.
Com’è nata questa tua vocazione?
Da tempo, per il ruolo che ricoprivo in campo assicurativo e finanziario, studiavo i grandi fenomeni di rischio delle società occidentali moderne. Da anni era chiaro che la crescita demografica avrebbe determinato l’insostenibilità del sistema pensionistico e assistenziale. In Italia la situazione è particolarmente difficile perché la popolazione è molto anziana e, in confronto agli altri paesi, facciamo ricorso in modo più sporadico alle assicurazioni private che coprono spese assistenziali. Il nostro sistema di welfare inoltre funziona molto bene su fasce economicamente disagiate a rischio di povertà, o con chi versa in condizioni di non autosufficienza molto gravi. Tuttavia, è la spesa privata della famiglie a sopperire a tutto ciò che esula da queste situazioni. Indipendentemente dalle condizioni economiche, dietro le quinte c’è un gigantesco lavoro organizzativo, psicologico, emotivo, relazionale. Un lavoro che nessuno conosce.
Cosa ti ha portato a diventare imprenditrice nel campo dell’assistenza?
Il primo motivo è la già citata esperienza in campo assicurativo e finanziario. Mi affascinava capire come le polizze potessero contribuire a porre rimedio alla situazione; per riuscirci, però, dovevo mettere le mani in pasta. Quindi ho cambiato settore, entrando in una delle più grandi onlus assistenziali in Italia. L’impatto, sul piano professionale e personale, è stato forte e voluto. Volevo passare da una gestione prettamente economica della fragilità a un lavoro sul campo che vedesse esattamente cosa succedeva nelle famiglie che affrontavano un disagio.
Ho lavorato lì per cinque anni e mi sono fatta un’idea su come funzionava il sistema e dove mancavano gli aiuti. Ho capito una cosa fondamentale: le famiglie possono anche avere capacità economiche per affrontare le difficoltà, ma il guaio più grande è trovarsi persi. Uscire da un ospedale e non sapere cosa fare. I familiari sono chiamati a prendere decisioni importanti, ma sono soli. Gli sportelli dedicati sono molto frammentati, non sai a chi rivolgerti, i sistemi di aiuto vanno cercati sul territorio.
Ho capito che, invece di costruire tutto da sole, le famiglie potevano essere di gran lunga agevolate; ma mancava il sistema che le aiutasse a cercare più velocemente aiuto sul territorio. Una piattaforma nazionale poteva contribuire a colmare questo gap e dare un aiuto concreto, in termini organizzativi ma anche psicologici. Ho creato una rete tra donne che avevano vissuto questi problemi e, insieme a loro, mi sono lanciata in questa avventura imprenditoriale. Mi sono confrontata anche con esperti internazionali, per capire come funzionavano le cose nei loro paesi.
Oltre al tuo percorso professionale ha inciso anche quello personale?
Sì, io stessa sono testimonial di questo progetto perché sono una figlia che si prende cura dei genitori anziani che vivono in un’altra città. Quello che pesa è la paura di non farcela, il fatto di diventare genitore del genitore. Chi si trova in questa situazione ha bisogno di sostegno. Quello che vedevo nelle altre famiglie iniziava ad apparire come uno specchio della mia esperienza. Vivevo grandi preoccupazioni personali e mi dicevo: sarebbe un gigantesco passo avanti se qualcuno potesse darmi consigli, o anche solo ascoltarmi.
Come se non bastasse, questo tema è ancora un tabù. Soprattutto le malattie neurodegenerative ti spolpano, non solo economicamente: un genitore che non ti riconosce più aggiunge un peso psicologico enorme. In Italia si parla di un milione di casi di demenza, 930mila persone rimaste invalide dopo un ictus, 240mila affette dal morbo di Parkinson. Persone a cui la famiglia è completamente dedicata.
Come sei riuscita ad affrontare una nuova avventura professionale e di vita?
Quando mi imbatto in un problema, in qualsiasi ambito, come prima cosa lo studio in modo approfondito dedicandogli tempo ed energie; la mia massima è “never stop learning”. Tra il 2020 e il 2022, con le attività rallentate a causa della pandemia, ho approfittato delle ore libere per focalizzarmi sull’innovazione digitale iscrivendomi a un corso del Mit di Boston. In parallelo mi sono dedicata a un approfondimento manageriale sui casi familiari più critici attraverso un corso sul caregiving management della Harvard medical school. Anche questo, unito a ciò che facevo sul lavoro e come figlia, mi ha aiutata moltissimo. Da ultimo, sentendo l’esigenza di pormi le domande giuste, ho ritrovato la filosofia che avevo lasciato ai tempi del liceo: applicata alla vita di tutti i giorni, ha un valore immenso per superare ostacoli grandi e piccoli. Il tutto per rendere sempre più rotondo quello che faccio. Mi guida una grande capacità di approfondire, guardare un po’ più in là, pianificare. Anche di fronte agli imprevisti, non mi è mai mancato il coraggio di riprendere le fila dell’accaduto e capire con lucidità quello che potevo fare e come. Forse è stato questo a salvarmi in tanti momenti.
In che modo il tuo background familiare ha influito sulla formazione del tuo carattere?
Sono simile a mio papà nel carattere e nelle scelte, anche lui ha sempre agito così: affrontare le cose, studiarle, capirle e, così, trovare spunti e strumenti per crescere. La mia famiglia ha girato il mondo. Papà, che era professore e preside, a un certo punto ha deciso di dedicarsi ad attività di formazione all’estero in paesi in via di sviluppo. Ha fatto un lavoro eccezionale che ho ammirato per anni, perché lui stesso ha studiato moltissimo per innovarsi e portare innovazione agli altri. Tutto questo secondo me un pochino si assorbe, io ho assorbito l’esempio che avevo davanti.
Come si inserisce il tema del gender nel progetto VillageCare?
I giovani che si prendono cura dei propri anziani, tra otto e dieci milioni di persone, sono prevalentemente donne, un po’ per tradizione e cultura, e un po’ perché sono le più portate. Professioniste o dipendenti, con figli da crescere o adolescenti, con mille impegni nella gestione della casa, si trovano questa ulteriore responsabilità di occuparsi dei genitori; o, a volte, dei suoceri. Lo dicono anche i dati sulla disoccupazione o non occupazione: la donna ha talmente tanti ruoli in famiglia che non ce la fa ad andare anche a lavorare. Di fatto questa persona si porta a casa un mestiere che impone continuità sia nell’assistenza in sé, sia nella sua organizzazione.
In VillageCare sono donne le socie fondatrici e le socie operative in prima linea, a partire da Jennifer Della Lucia, con la quale abbiamo sviluppato il progetto.
Quali sono i valori che hanno guidato il tuo percorso?
Sicuramente la parola chiave è proprio valore: dare valore a quei caregiver che fanno un lavoro invisibile. Anche inclusione è un tema per noi molto vero perché vogliamo riempire i vuoti informativi, fare in modo che le persone si sentano sostenute. Inclusione anche perché vogliamo arrivare trasversalmente a tutti, in modo tale che sia più facile chiedere aiuto. Il che ha anche un significato culturale: apriamoci, chiediamo aiuto, smontiamo lo stigma su questi temi. Un altro valore per noi è la sfera del femminile, perché è quella che fa più rinunce per accudire i propri cari. E un valore è, ovviamente, la sostenibilità economica, perché non siamo una charity ma abbiamo un modello di business forte. Abbiamo infatti intercettato fondi e business angel e stiamo lavorando allo sviluppo di un capitale industriale.
Come siete arrivati a sviluppare VillageCare coinvolgendo famiglie e aziende?
VillageCare è nato come una bussola per le famiglie che si sentono disorientate, un servizio a cui chiedere un aiuto concreto (anche sul fronte psicologico), che suggerisce i passi migliori da compiere e offre quel supporto di cui la famiglia ha bisogno. Lavoriamo anche con le compagnie di assicurazioni per costruire polizze integrate con i nostri servizi di consulenza e orientamento.
Oltre a questo ci siamo focalizzati sull’ambito lavorativo, per proporre formule assicurative e di welfare aziendale. Oltre al sovraccarico emotivo, infatti, l’impegno di caregiver porta conseguenze lavorative importanti tra assenze, richieste di part time e aspettative. C’è anche chi rinuncia al lavoro, soprattutto tra gli autonomi, nelle piccole imprese e tra le donne. Nel nostro sistema, è l’azienda ad acquistare per il dipendente una serie di strumenti di welfare aziendale: flessibilità sul posto di lavoro, formazione, consulenza, sportelli, blog aziendali informativi. Generalmente li offre sotto forma di benefit o bonus.
L’impresa gode dei benefici fiscali su questi strumenti e anche di una maggiore produttività da parte del dipendente. Il caregiver ha un beneficio perché, con una base di conoscenze più solida, sarà in grado di compiere scelte migliori. Soprattutto, il tempo dedicato ai genitori non è più disperso tra questioni burocratiche e amministrative, ma è tempo per stare insieme.
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