Nella regione del Sahel, sconvolta da conflitti inter comunitari e dai gruppi jihadisti, 29 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria.
La Siria non è ancora un luogo dove fare ritorno. La fotografia umanitaria dopo 7 anni di guerra
La comunità internazionale sembra stanca della crisi siriana, intanto migliaia di rifugiati siriani rischiano di essere rimpatriati nonostante il protrarsi della guerra e delle violenze.
Il 15 marzo marca il settimo anno di guerra civile in Siria, mentre nel mondo si assiste a una reazione globale contro i rifugiati e le condizioni di asilo nei Paesi confinanti si fanno sempre più severe e meno accoglienti, e mentre una serie di vittorie del governo siriano alimentano una retorica fuorviante, secondo cui la Siria è un luogo sicuro in cui tornare.
Il risultato di questa combinazione di fattori è che nel corso del 2018 centinaia di migliaia di rifugiati rischiano di essere costretti a tornare in Siria, nonostante le continue violenze e i bombardamenti che mettono a repentaglio la vita dei civili.
Episodi come quelli di Aleppo, Racca e Ghouta, l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia o il massiccio afflusso di rifugiati verso le coste greche hanno riportato l’attenzione internazionale verso questo Paese devastato dalla violenza. Ma dopo sette anni, e dopo lo stallo dei colloqui di pace a Ginevra e Astana, la comunità internazionale tende ad accusare una certa stanchezza e una preoccupante propensione a rinunciare all’idea di una soluzione politica e ad accettare che solo una soluzione militare sarà in grado di porre fine a uno dei conflitti più violenti del secolo.
“Dietro le letture dei media, con un obiettivo spesso focalizzato esclusivamente sulle aree dei bombardamenti, noi che lavoriamo quotidianamente sul campo siamo in grado di offrire alcuni altri parametri per formare un quadro completo della situazione, dopo sette anni di guerra,” dice Victor Velasco, a capo del Gruppo emergenza di Azione contro la fame.
5 punti per inquadrare la situazione umanitaria in Siria
- Il 2017 è stato un anno record di sfollamento: 2,8 milioni di persone (7.665 ogni giorno) hanno lasciato la loro casa in fuga dalle violenze. Ma, intrappolate dall’inasprimento della situazione nei Paesi limitrofi, molte famiglie non sono riuscite a lasciare la Siria e sono fuggite per la seconda, terza o quarta volta in pochi anni. In questo momento ci sono 1 milione di siriani sfollati all’interno del Paese;
- gli sfollati – metà dei quali sono bambini – non solo si lasciano alle spalle casa, scuola e mezzi di sussistenza, spesso con un forte stress post-traumatico, ma negli ultimi due anni sono aumentati gli episodi di lavoro minorile, matrimoni forzati e violenza di genere;
- nel 2017 il numero di persone in zone di difficile accesso agli aiuti umanitari è stato ridotto grazie alla “pacificazione” di alcune aree nel sud e nell’est del Paese, passando da 4,5 a quasi 3 milioni di persone. Tuttavia, 410mila persone vivono ancora in dieci luoghi assediati da diverse fazioni del conflitto, tra cui Ghouta orientale, Yarmouk, Fouae Kefraya. Quando non vengono bombardati, l’iperinflazione o la carenza di prodotti di base mettono seriamente in pericolo la sicurezza nutrizionale della popolazione;
- dei 5 milioni di rifugiati nei Paesi confinanti – 3,6 milioni in Turchia, 1 milione in Libano, 658mila in Giordania, 247mila in Iraq e 127mila in Egitto, secondo i dati ufficiali – l’80 per cento vive in povertà. La qualità dell’asilo è stata ridotta, nonostante gli sforzi di organizzazioni umanitarie come Azione contro la fame per coprire i bisogni di base, e le loro possibilità di guadagnarsi da vivere sono ancora molto limitate dal loro status legale, dal momento che non possono lavorare o muoversi liberamente;
- l’apparente de-escalation della violenza in alcune aree del Paese sta spingendo il ritorno forzato della popolazione. Il rapporto Dangerous ground, presentato a febbraio da Azione contro la fame, Save the Children e il Norwegian refugee council (Nrc) tra le altre organizzazioni, mostra che il numero di siriani che hanno fatto ritorno in patria è salito da 560mila a 721mila, ma per ogni rimpatriato ci sono stati altri tre nuovi sfollati a causa della guerra. L’Onu prevede che nel 2018 saranno sfollati un altro milione e mezzo di siriani.
Tuttavia, con il deterioramento delle condizioni per molti rifugiati nella regione e con ben poche opportunità di reinsediamento in altri Paesi, molti siriani potrebbero davvero sentirsi spinti a tornare in Siria.
Mentre Giordania, Libano e Turchia hanno mostrato una notevole generosità in passato, la mancanza di volontà politica da parte dei Paesi del primo mondo di aiutare i rifugiati siriani ha creato la sensazione che la chiusura dei confini e il ritorno dei rifugiati sia giustificata.
Che opzioni hanno i rifugiati?
Per quanto riguarda i rifugiati, sembra che fino ad oggi abbiano solo tre opzioni: ritornare, integrarsi nel Paese ospitante o essere reinsediati in un Paese terzo.
La prima opzione è completamente esclusa dalle condizioni di sicurezza. Nel rapporto Dangerous ground sono evidenziati i danni enormi alle strutture, pubbliche e private, del Paese: ad esempio, solo un intervistato su cinque proveniente dal nordovest della Siria ha riferito che la propria casa era ancora intatta e si calcola che una scuola su tre sia danneggiata, distrutta o utilizzata per altri scopi. Per non parlare del fatto che gli ospedali sono stati sistematicamente presi di mira: a Ghouta orientale sono stati attaccati sei ospedali, causando morti e feriti e lasciando migliaia di uomini, donne e bambini senza la più basilare assistenza sanitaria.
Il secondo modo è sempre più difficile nei Paesi che hanno un numero sproporzionato di rifugiati nel loro territorio, se la comunità internazionale non decide di accompagnare lo sforzo con risorse adeguate e di rendere efficace l’aiuto promesso. Ma nei primi mesi del 2018 si è finanziato solo il 5 per cento dell’appello umanitario e nei tre anni precedenti solo la metà dei bisogni è stata soddisfatta.
Per la terza opzione è necessaria una volontà politica che ha dato pochi indizi di realizzazione fino ad ora. Addirittura nel 2017 l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) ha più che dimezzato le proposte di reinsediamento dei rifugiati siriani rispetto all’anno precedente e, ad oggi, solo il 3 per cento dei rifugiati siriani vulnerabili è stato reinsediato in Paesi ricchi – una percentuale scandalosamente bassa.
Bastano questi dati per capire che ricostruire l’infrastruttura frantumata del Paese sarà una sfida enorme e costosa. Il protrarsi delle violenze e dei bombardamenti e la scarsità di accesso a servizi primari (in primis accesso a cibo e acqua potabile) rende il rimpatrio dei rifugiati siriani, anche se volontario, estremamente pericoloso. Per quanto molti dei rifugiati siriani vogliano fare ritorno a casa, non possiamo assolutamente permetterlo.
All’interno della Siria, in attesa della pace, la massima priorità di Azione contro la fame è fornire assistenza alla popolazione direttamente colpita dal conflitto. I bisogni umanitari non smettono di crescere: infatti, la chiamata umanitaria del 2018 è del 4,7 per cento più alta rispetto al 2017. Continueremo a portare il nostro aiuto e, quando sarà il momento, ci impegneremo per garantire un ritorno sicuro ai rifugiati nella loro patria. Ma quel momento non è adesso.
Questa è la fotografia umanitaria alla fine del settimo anniversario del conflitto. Una fotografia che tutti dovremmo vedere ed essere in grado di cambiare.
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