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Smartphone e pc, c’è ancora molto da fare per difendere i diritti dei lavoratori
Per porre fine alle violazioni dei diritti nelle “fabbriche del sudore”, audit e autoregolamentazione non bastano. Lo provano le testimonianze dei lavoratori.
Il settore dell’alta tecnologia (hi-tech) è uno dei più criticati dal punto di vista del rispetto dei diritti dei lavoratori nelle cosiddette “fabbriche del sudore”, stabilimenti situati principalmente in Asia dove vengono assemblati smartphone, tablet, computer portatili e altre apparecchiature tecnologiche. Salari bassi, esposizione alle sostanze tossiche senza alcuna protezione, turni massacranti e lavoro minorile sono ancora troppo frequenti.
Si parla troppo poco di diritti dei lavoratori
Che si tratti di Cina, Corea del Sud o Messico, la libertà di associazione e l’azione dei sindacati sono spesso ostacolate all’interno delle singole fabbriche. Risulta quindi complesso – e rischioso – per i lavoratori fare pressione o anche solo far conoscere la propria realtà. Per questo, alcune ong formano ed aiutano i lavoratori del sud a valutare loro stessi le condizioni di lavoro e a farle conoscere ai consumatori del nord per fare pressione sui giganti dell’hi-tech.
L’ong messicana Centro de reflexión y acción laboral (Cereal) è attiva dal 1997 nella difesa dei diritti dei lavoratori delle “maquiladora”, le fabbriche di terzisti e subappaltatori nelle quali le grandi multinazionali fanno realizzare i loro prodotti. All’attività di formazione, sensibilizzazione e consulenza legale ai lavoratori, l’ong affianca un’azione di monitoraggio delle condizioni di lavoro e del rispetto dei diritti basata su interviste realizzate dagli stessi lavoratori a loro colleghi, all’interno di strutture situate fuori dalla fabbrica, per metterli al riparo da possibili rappresaglie. I suoi rapporti servono da guida a piattaforme come l’Electronics Watch, una struttura indipendente che aiuta gli enti pubblici ad approvvigionarsi in prodotti hi-tech da filiere responsabili.
I limiti di audit e dell’autoregolamentazione
A partire dagli anni Novanta, ha iniziato a emergere il concetto di responsabilità sociale d’impresa e la pressione dell’opinione pubblica è diventata sempre più forte. Di conseguenza, molti grandi marchi dell’hi-tech hanno accettato di redigere codici di condotta sottoposti alla verifica da parte di agenzie private di certificazione.
Nel 2004 è nata la Electronic industry Citizenship Coalition (Eicc), composta dai marchi leader dell’elettronica Dell, Hewlett-Packard, Apple e dai loro principali fornitori, come Foxconn, dalle cui linee escono componenti dei più sofisticati smartphone oggi in commercio. La sua missione è quella di sviluppare standard sulle questioni sociali, ambientali ed etiche da applicare all’insieme dell’industria. L’adesione all’Eicc, che organizza anche formazioni per i suoi membri, è su base volontaria e non esistono sanzioni legali per gli eventuali trasgressori del suo codice.
Looking forward to #Apple VP @lisapjackson keynote at Responsible #Electronics 2016! https://t.co/xfGb1GpgfK @EICCoalition #CSR #EICCRE16 pic.twitter.com/cyHUp0hCmv
— EICC (@EICCoalition) 2 novembre 2016
Un aspetto giudicato critico da quanti chiedono alle multinazionali reali progressi per quanto riguarda i diritti dei lavoratori. L’ong China Labour Watch, attiva nel supporto ai movimenti dei lavoratori in Asia ma famosa soprattutto per i suoi rapporti di denuncia realizzati infiltrandosi sotto copertura nelle fabbriche, ha per esempio mostrato lo scarto esistente fra il codice etico che Apple dichiara di applicare e la realtà all’interno delle fabbriche dei suoi subappaltatori. In un rapporto l’ong internazionale Human Rights Watch afferma: “Le iniziative volontarie presentano tutte lo stesso limite cruciale: la loro forza è quella che le compagnie che aderiscono decidono di dargli e non si applicano alle compagnie che non vogliono aderire”. È anche per questo che iniziative come Fairphone, anziché costituire la norma, restano aneddotiche.
Foto in apertura © Philippe Roy / Getty Images
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