Potrebbe essere cominciato un nuovo capitolo nella ricerca della verità sulla strage dei rohingya nel Myanmar. Due disertori dell’esercito birmano hanno ammesso in un video di aver ucciso e gettato nelle fosse comuni decine di persone, di aver incendiato villaggi e di aver stuprato donne, in ottemperanza agli ordini dei loro generali. È la prima volta che il genocidio dei rohingya del 2017 viene ammesso dai suoi stessi esecutori.
Two former Myanmar soldiers confessed to carrying out mass killings and rape of Rohingya Muslims. Here is what you need to know about their confession pic.twitter.com/SZ3SfYjjrE
I rohingya sono una minoranza etnica musulmana del Myanmar (ex Birmania), composta da circa 800mila persone. Nel corso della storia del paese, divenuto indipendente nel 1948 e composto al 90 per cento da una maggioranza buddista, hanno dovuto subire discriminazioni sociali e politiche di ogni tipo. Diversi sono stati i limiti imposti alla loro libertà di movimento, così come gli ostacoli che hanno impedito loro l’accesso a servizi come l’istruzione, la sanità, il lavoro. Ai rohingya, peraltro, non è mai stata concessa la cittadinanza birmana. Nel corso del tempo hanno subito diversi attacchi ai loro villaggi, ma se c’è un anno in cui questa situazione già difficile è ufficialmente degenerata, quello è il 2017.
Dopo una serie di piccoli attacchi a stazioni di polizia da parte dei ribelli musulmani dell’Arakan rohingya salvation army, è iniziata una vera e propria offensiva dell’esercito del Myanmar contro i villaggi della minoranza islamica. Per quanto il governo guidato dalla premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi abbia più volte sottolineato che l’azione sia stata volta unicamente a contrastare gli insurrezionalisti e che i morti siano stati giusto qualche decina, le evidenze sul campo hanno raccontato un’altra storia. Un rapporto di Medici senza frontiere parla di 6.700 rohingya uccisi nelle violenze del 2017 da parte del governo e dell’esercito, mentre un’indagine della Commissione d’inchiesta internazionale indipendente in Myanmar parla di 700mila rohingya che sono stati costretti a fuggire nel confinante Bangladesh (dove si trovano tuttora dimenticati nei campi profughi), per fuggire da persecuzioni, violenze, stupri e mettersi in salvo dalla distruzione dei propri villaggi.
Le Nazioni Unite hanno parlato di un vero e proprio genocidio, chiedendo che i capi militari venissero processati per questo, oltre che per crimini contro l’umanità e crimini di guerra. Una versione confermata da alcuni inviati statunitensi. Il governo birmano, invece, ha sempre negato le proprie responsabilità, ammettendo che in alcuni casi c’è stato un uso sproporzionato della forza ma ostacolando al contempo il lavoro di ispettori internazionali e giornalisti, spesso anche con arresti ingiustificati.
La verità dei militari disertori
“Spara a tutto ciò che vedi e tutto ciò che senti”. I due soldati birmani oggi disertori Myo Win Tun, del battaglione Lib 565, e Zaw Naing Tun, del battaglione Lib 353, hanno ricevuto quest’ordine dai loro superiori durante l’offensiva del 2017. È quanto hanno dichiarato in un video uscito in questi giorni, nel quale raccontano alcuni dettagli raccapriccianti di quella che appare a tutti gli effetti come un’operazione genocida pilotata dall’alto.
I due, di servizio nello stato di Rakhine, hanno raccontato di aver ucciso complessivamente oltre cento persone, senza fare distinzione tra adulti e bambini e gettandole in alcuni casi in fosse comuni; di aver partecipato alla distruzione di una ventina di villaggi; di aver violentato diverse donne. I soldati hanno anche fatto i nomi di loro compagni, oltreché dei loro comandanti, elementi che corrispondono agli organigramma ufficiali dell’esercito birmano e che dunque aggiungono credibilità al racconto. Alcune organizzazioni che si occupano del caso hanno definito del tutto credibile questa versione dei fatti.
È la prima volta che il genocidio dei rohingya viene riconosciuto dai suoi stessi perpetratori. I due soldati sono ora detenuti presso il Tribunale internazionale di giustizia dell’Aia, dove verranno processati. Finora c’era stata una sola sentenza con cui il genocidio della minoranza musulmana birmana aveva assunto rilevanza penale: nel 2018 sette soldati delle milizie governative erano stati condannati a dieci anni di prigione e lavori forzati. Per il resto, però, gli ultimi tre anni sono stati caratterizzati dai tentativi della comunità internazionale di fare luce sul massacro e dalla determinazione del governo del Myanmar a insabbiare l’operato del suo esercito. Le dichiarazioni dei due soldati disertori birmani aprono ora un nuovo capitolo per il presente e il futuro dei rohingya.
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