Roberta Redaelli, nel suo saggio Italy & Moda, raccoglie le voci del tessile. E invita il consumatore a fare scelte che lo spingano alla sostenibilità.
Sostenibilità significa anche abbracciare tutti i tipi di corpi
Plus size e adapting clothing, una moda che possa definirsi sostenibile deve essere inclusiva: ovvero prendere in considerazione tutti i tipi di corpi.
- In una società che ci ha abituati a concepire la “normalità” come univoca, tutti i corpi non conformi allo standard vengono discriminati.
- Chi ha un corpo che viene definito “plus size” incontra moltissime difficoltà quando si tratta di abbigliamento: le taglie spesso si fermano alla L o alla XL, nel caso dei brand sostenibili poi, le opzioni si restringono ancora di più.
- Con “adaptive clothing” si intende tutti quegli abiti o accessori disegnati specificatamente per chi ha una disabilità: la moda oggi ha fatto enormi passi avanti, ma anche in questo caso le opzioni che integrino funzionalità, estetica e sostenibilità sono molto poche.
La società in cui siamo cresciuti e viviamo ci ha abituati a ragionare e a categorizzare qualunque aspetto della vita attraverso un sistema rigidamente binario: conforme/non conforme. Tutti quei corpi che non rientrano in quello che il nostro sistema culturale definisce “standard” hanno vita difficile.
E non solo hanno vita difficile perché le persone che abitano quei corpi devono costantemente subire il giudizio altrui, ma hanno vita difficile anche perché devono compiere uno sforzo in più anche per fare qualcosa per tutti gli altri di molto semplice, come vestirsi secondo il proprio gusto e magari in maniera etica. Prima di addentrarci infatti in discorsi più complessi su temi come accettazione e body positivity va infatti precisata una cosa: chi ha necessità di vestirsi con taglie superiore alla L o XL incontra serie difficoltà nel trovare degli articoli pensati per il proprio corpo.
Questo succede perché un tassello fondamentale del sistema patriarcale e capitalistico in cui ci troviamo riguarda proprio ciò che pensiamo o proviamo a proposito dei corpi. La proposta continua di modelli di bellezza inverosimili e irraggiungibili è uno dei tanti strumenti di coercizione messi in atto dalla società. Naomi Wolf nel suo saggio del 1991 “Il mito della bellezza” spiega come questi canoni imposti ad arte non siano altro se non strumenti di coercizione femminile: tentare di raggiungere un mito di bellezza sottrae tempo ed energia a qualunque forma di ribellione nei confronti dello status quo. L’industria dell’abbigliamento, fornendo un range di taglie limitato allo standard e creando così una specie di ghettizzazione delle persone sovrappeso, non fa che alimentare questo circolo vizioso, generando in queste persone senso di inadeguatezza e insicurezza.
Questo succede con tutti i corpi non conformi, sia che si tratti di corpi in sovrappeso, che di corpi di persone disabili. Relegare il discorso al problema delle taglie è semplicemente riduttivo. Il movimento sociale e politico che viene identificato con il nome di “Body Positivity” si fonda infatti sull’assunto che tutti i corpi sono validi e ha l’obiettivo di combattere i pregiudizi imposti dai canoni estetici e culturali della società. Al di là degli slogan e del trend di marketing che molti brand ultimamente stanno cavalcando, molte persone con corpi “non conformi” ancora incontrano molte difficoltà quando si tratta di trovare abiti che gli vadano bene.
Il panorama delle taglie
Il termine “plus size” contiene già in sé tutto il problema: la taglia considerata normale è quella di un corpo standard, se sei in sovrappeso ti serve qualcosa di diverso, che si discosta dalla normalità, perciò in un mondo pensato per normodotati e normopeso spesso semplicemente questi prodotti non si trovano.
Il problema della taglie quindi c’è, è reale, e, paradossalmente, viene ancor di più messo in luce quando si parla di moda sostenibile: è difficilissimo trovare taglie oltre la XL presso brand che non siano fast fashion. A dichiararlo sono le stesse persone curvy, che spesso denunciano come ci sia mancanza di alternative presso brand che abbiano una produzione sostenibile, ma anche nel second hand. Non solo, nei negozi fisici spesso le taglie over non ci sono. Questo costringe chi ne ha bisogno ad ordinare il prodotto sul sito, provarlo a casa e, nel caso non vada bene, renderlo e provare un’altra taglia. Chi vorrebbe essere il più possibile attento all’ambiente e si trova a dover far fare dei viaggi inutili a un prodotto giustamente si sente penalizzato da questo sistema.
Negli Stati Uniti il 66 per cento delle donne indossa una XL e il mercato delle “taglie forti” nel 2020 ha raggiunto i 28 miliardi di dollari stando a quanto riportato da Vogue Business, ma da questa grossa fetta di mercato al momento sono esclusi sia i marchi eco-conscious che il second hand. C’è quindi un grosso lavoro da fare da parte di quei brand che vogliono inserirsi in questo spazio in maniera credibile. Estendere il range delle taglie è solo il primo passo, è necessario che venga abbracciato e celebrato anche un certo tipo di immaginario.
Il problema principale è che la stragrande maggioranza dei brand, sostenibili e non, semplicemente ignorano la faccenda, delegando ai marchi dichiaratamente “plus size” la questione e, purtroppo, il segmento in cui si intersechino le due componenti, sostenibilità e taglie forti, è scarsamente popolato.
Almeno in Italia, dove però spicca Fantabody: marchio basato nel milanese che produce a mano, in quantità limitata per tutti i tipi di corpi e utilizzando materiali riciclati. Nel mondo anglosassone le cose vanno meglio, per tradizione e anche probabilmente perché come detto prima il 66 per cento delle consumatrici indossa almeno una XL. Arq ad esempio è una realtà statunitense che produce intimo body positive in cotone organico e spedisce in confezioni plastic free, Daria Deh è stato fondato in Austria da un’attivista ambientale e produce in Portogallo con materiali naturali o riciclati, Neems è una realtà basata a Los Angeles che produce jeans su misura in cotone organico e utilizza fonti di energia rinnovabile per la sua produzione.
Abbigliamento e disabilità
Per chi deve servirsi di una o più protesi, o per chi ha bisogno di una carrozzina per muoversi, la maggior parte degli abiti in circolazione rappresenta un ulteriore ostacolo da superare nella vita di tutti i giorni perché, nella stragrande maggioranza dei casi, i parametri secondo cui questi capi vengono studiati sono quelli dei normodotati. Provate a pensare come fare ad allacciare una zip o ad abbottonare una camicia con una mano sola, ma anche a indossare un paio di pantaloni da seduti, oppure avere un piede solo ed essere costretti a comprare due scarpe.
Quello che viene definito adaptive clothing è l’abbigliamento studiato, pensato e progettato per chi ha una disabilità: in questo campo rientrano zip e bottoni magnetici ad esempio, ma anche tessuti studiati per non infastidire chi è nello spettro dell’autismo e non tollera certi materiali, ancora scarpe senza lacci o accessori pensati per chi indossa delle protesi.
Come nel caso di chi non ha un corpo conforme perché sovrappeso, nel caso di chi ha un corpo considerato non conforme, il fulcro sta nella necessità di chi vive questi corpi di potersi esprimere e poter godere di abiti belli da vedere, performanti o sostenibili esattamente come chi si è ritrovato un corpo “standard”. In passato, i prodotti di adaptive clothing erano spesso progettati per essere poco appariscenti, esattamente come le carrozzine nere o le protesi e gli apparecchi acustici color carne, fortunatamente questo approccio sta cambiando e, sempre più brand, e grandi player del settore stanno includendo design adaptive nei loro prodotti.
Tommy Hilfiger ha un’intera linea adaptive, Asos nel 2018 ha creato una linea di tute per chi utilizza carrozzina e anche degli orecchini che potessero essere indossati da persone con impianti cocleari (apparecchi acustici per chi è sordo o ha una ristretta capacità uditiva). Nike, applicando i principi del “design universale” con le Flyease ha creato delle sneakers che possono essere indossate senza l’utilizzo delle mani.
L’avanzamento tecnologico consente al design adaptive di coniugare funzionalità ed estetica, ma dà una grossa mano anche in fatto di esperienza di acquisto: il sistema Every Human’s Unpaired, grazie a un sistema di ordinazioni più sofisticato di quello standard, permette ad esempio di acquistare scarpe singole e ricercarle per parametri che includano non solo la taglia, ma anche lunghezza e grandezza, cosa non trascurabile per chi indossa una protesi.
Nonostante la tecnologia abbia reso possibile fare passi da gigante, le persone disabili che siano interessate all’estetica e alla sostenibilità, oltre che alla funzionalità, hanno veramente poche opzioni a disposizione. Tra questi Unhidden, fondato da una ragazza che è diventata disabile dopo aver lavorato per anni nella moda, MIGA Swimwear che produce costumi adaptive in poliammide riciclato e I Am Denim, brand specializzato in jeanseria che offre prodotti anche per chi ha subito interventi in zone delicate per i pantaloni, o per il post parto.
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