L’industria tessile si sta attrezzando per innovare se stessa e trovare soluzioni meno impattanti: la fermentazione rappresenta l’ultima frontiera moda.
La sovrapproduzione è il problema più grande della moda
Sono 17 milioni le tonnellate di tessuti prodotte ogni anno nel mondo. La sovrapproduzione nel tessile genera rifiuti, consuma risorse e produce emissioni.
- Il tessile è un settore molto impattante dal punto di vista ambientale e il problema maggiore è rappresentato dalla sovrapproduzione.
- Dai primi anni 2000, con l’avvento del fast fashion, la sovrapproduzione di abiti è diventata la normalità, tanto che oggi i tessuti prodotti ogni anno nel mondo sono 17 milioni di tonnellate.
- Se da un lato è vero che compriamo troppo e di più rispetto al passato, dall’altro non compriamo abbastanza rispetto alla produzione e ogni anno produciamo circa 11 milioni di tonnellate di rifiuti tessili.
In Europa ogni persona compra in media 26 chili di prodotti tessili ogni anno, lo dice un report pubblicato dal Parlamento europeo. Rispetto agli anni Novanta ognuno di noi fa acquisti per il 40 per cento in più. Contando che una valigia da stiva pesa solitamente 23 chili, è come se annualmente introducessimo nel nostro armadio abiti per un quantitativo maggiore rispetto a quelli che entrano in un bagaglio di grandi dimensioni. Questo si traduce, nella sola Unione europea, in una produzione di 654 chili di CO2 equivalente, per persona, ogni anno.
Accumulando così tanto non è difficile immaginare che gran parte di quello che compriamo non riusciamo neanche a indossarlo. Dal 1960 al 2015 la quantità di rifiuti tessili prodotta in Italia è aumentata dell’811 per cento stando al rapporto Italia 2020 di Eurispes. Nel solo 2015, l’ultimo anno preso in esame, sono finiti in discarica abiti per 1.630 tonnellate.
Questo succede perché compriamo troppo, ma anche perché la durabilità dei capi si è drasticamente accorciata, diminuendo del 36 per cento negli ultimi decenni. Molti degli abiti che compriamo oggi hanno una vita inferiore ai 160 utilizzi.
Quanto si produce nel mondo in un anno?
Diciassette milioni di tonnellate secondo quanto riportato dalla Epa, l’Agenzia statunitense per la protezione ambientale. Il primo necessario passo per una moda più sostenibile è anche molto intuitivo: dobbiamo produrre di meno. Ma come si è arrivati a questa enorme massa di prodotti?
La tempesta perfetta si è scatenata in questo senso nei primi anni 2000, ovvero quando hanno iniziato a comparire sul mercato catene che offrivano abbigliamento a prezzi sempre più bassi, le catene di fast fashion. Questo ha comportato un radicale cambiamento da un lato nei consumatori, e dall’altro nel settore stesso che prima si divideva grosso modo in maison d’alta moda, marchi prêt-à-porter e pronto moda.
Tutti questi universi erano regolati poi secondo una stagionalità ben precisa che consisteva nel rilascio di due collezioni ogni anno, una per l’autunno/inverno e una per la primavera/estate. Al massimo quattro, contando le collezioni cruise, concepite per le vacanze o i viaggi, e le mezze stagioni come le collezioni pre-fall di ottobre/novembre per il periodo autunnale.
L’avvento del fast fashion ha fatto saltare in toto questo meccanismo rilasciando molti più drop – ovvero pacchetti di collezione – in un anno e innescando una spirale continua di desiderio nei consumatori.
Il nostro cervello è programmato per ricercare le novità: di fronte a qualcosa di nuovo riceviamo delle scariche di dopamina che ci rendono felici. Essendo per natura portati a voler sempre qualcosa di diverso e non incontrando l’ostacolo economico del costo, è comprensibile come si sia innescato un meccanismo di acquisti molto più consistente rispetto al passato.
Questo ha generato conseguenze però anche nel comparto della moda in generale dove i brand che tradizionalmente producevano due collezioni l’anno, per stare al passo, hanno iniziato ad aggiungere prodotti sempre nuovi.
E lo hanno fatto introducendo una miriade di quelle che in gergo si chiamano capsule collection, ovvero porzioni di collezione dedicate a una ricorrenza o evento, oppure collaborazioni con altri brand. Questo meccanismo ha fatto sì che oggi non sia solo il fast fashion ad essere responsabile della sovrapproduzione, ma anche i brand del lusso.
La giornalista Elizabeth Cline nel suo saggio “Overdressed: the shockingly high cost of cheap fashion”, pubblicato nel 2013, ha raccontato che oggi i brand di fast fashion producono circa 52 “micro-stagioni” all’anno, ovvero una collezione nuova a settimana.
Replicando le tendenze in tempo reale, che si tratti di streetwear o di quello che vediamo sulle passerelle durante le Fashion week, questi brand alimentano settimanalmente la spirale del desiderio costringendo anche gli altri soggetti del settore a stare al passo.
Le collaborazioni ad esempio sono un fenomeno che ha conosciuto il suo successo più grande a partire dal 2010. Se da una parte è funzionale ai brand per meglio determinare il posizionamento, soprattutto culturale come nel caso di liaison con il mondo della musica e dell’arte, questa strategia ha una sua logica anche dal punto di vista della necessità di soddisfare la voglia di novità dei consumatori.
Oggi poi la situazione è peggiorata con l’ingresso nel settore di brand come Shein, Zaful e Tally Weijl che fanno parte di una categoria di brand ancora più veloce nel rilasciare prodotti: l’ultra fast fashion.
Nel caso di marchi come questi il numero di nuovi prodotti può arrivare fino a 6000 il giorno, mentre i prezzi si abbassano drasticamente in un intervallo che va dai 3 ai 30 euro. Un’inchiesta del broadcast indipendente Channel 4 dal titolo “Untold: inside the Shein machine” ha fatto emergere le condizioni terribili a cui i lavoratori devono sottostare nelle fabbriche cinesi di Shein mettendo in luce anche un altro aspetto: ogni dipendente deve confezionare cinquecento capi al giorno.
Oltre all’enorme danno ambientale della sovrapproduzione, un costo altissimo lo pagano i lavoratori dei fornitori di queste catene. Il mondo intero se ne è reso conto nel 2013 quando il crollo del tetto di una fabbrica in Bangladesh, la Rana Plaza di Dacca, uccise 1134 persone. La necessità di produrre molto e in fretta mantenendo un costo basso al consumatore impone che i marchi risparmino sulla forza lavoro, sia in termini di salario che di condizioni lavorative.
Troppi prodotti significa troppi rifiuti
Sempre stando ai dati raccolti dall’Epa i tessuti vengono riciclati solo per il 14,7 per cento. Nel 2018 sono state riciclate circa 2,5 milioni di tonnellate di abiti, ma tutti quei prodotti che non vengono in qualche maniera rimessi in circolo, vengono poi bruciati. Sempre nel 2018 sono state 11,3 milioni le tonnellate di tessuti riversate in discarica sotto forma di rifiuti solidi urbani, ovvero il 7,7 per cento rispetto alla totalità degli scarti a livello globale.
Nella sola Unione europea, invece, vengono scartati e distrutti circa undici chili a persona ogni anno tra abiti e accessori. A dirlo sono i report presentati nella strategia europea per il tessile sostenibile e circolare. Per quanto riguarda la sola industria calzaturiera, ad esempio, si stima che entro il 2030 la produzione di scarpe sia destinata ad aumentare del 63 per cento arrivando alla cifra di 102 milioni di paia prodotte.
Ma cosa succede agli abiti e agli accessori che non solo non vengono mai utilizzati, ma non lasciano proprio gli scaffali del negozio? Un’inchiesta del Wall Street Journal del 2018 aveva fatto emergere come, in molti casi nel mondo del lusso, gli abiti invenduti vengano bruciati per evitare che, una volta passata la stagione, vengano venduti negli outlet o a prezzi molto scontati e quindi perdano di valore agli occhi dei consumatori.
Durante quello stesso anno la maison britannica Burberry avrebbe distrutto capi per 38 milioni di dollari di invenduto. Questo, oltre a rappresentare un enorme spreco in termini di risorse, rappresenta un problema anche dal punto di vista delle emissioni: bruciare i vestiti rilascia anidride carbonica e altri gas serra nell’atmosfera, il che esacerba il riscaldamento globale.
Un’inchiesta del parlamento britannico del 2019 dal titolo “Fixing Fashion: clothing consumption and sustainability. Fashion: it shouldn’t cost the earth” ha rilevato come l’incenerimento delle scorte invendute moltiplichi l’impatto sul clima del prodotto, generando ulteriori emissioni e inquinanti atmosferici che possono danneggiare la salute.
L’incenerimento di indumenti realizzati con fibre sintetiche infatti può rilasciare microfibre di plastica nell’atmosfera. Il rapporto consigliava al governo di vietare la combustione o lo scarico delle scorte invendute, ma al momento nessun provvedimento è stato preso in questo senso.
Recycling, upcycling e second hand
In un mondo sovrappopolato da abiti e scarti tessili la soluzione sta nell’iniziare a produrre il meno possibile, riutilizzando in maniera virtuosa quello che già c’è. Siccome da qui al 2030 la classe media è destinata a raddoppiare e la popolazione mondiale raggiungerà gli 8,5 miliardi, la domanda di abiti purtroppo non può che crescere.
Ad oggi solo l’1 per cento di tutto il tessile prodotto nel mondo viene riciclato. L’obiettivo dell’Europa è quello di incrementare il più possibile questa pratica entro il 2030, ma per far sì che il processo di riciclo sia efficace serve che anche i brand si impegnino nel renderlo possibile.
Non tutti i capi sono infatti riciclabili alla stessa maniera. Tanto per cominciare più contengono materiali diversi, più impiegano energia e risorse per essere scomposti. Riciclare infatti significa questo, scomporre qualcosa che non si utilizza più per trasformarne nuovamente i componenti.
Moltissimi brand oggi stanno puntando poi sull’upcycling, ovvero sul creare qualcosa di nuovo a partire da qualcosa che già c’è e che non necessita di ulteriori trasformazioni. Ad esempio se da un paio di vecchi jeans ricavo una gonna sto facendo un’operazione di upcycling. Molti marchi stanno percorrendo questa strada mettendo mano agli archivi e riutilizzando tessuti che andrebbero persi come, appunto, grandi stock di invenduto.
In questo scenario si inserisce poi il settore dell’usato: sempre più persone scelgono di comprare prodotti second hand per evitare il danno ambientale prodotto dai nuovi capi. Anche i singoli brand stanno iniziando a intravedere nella vendita di capi usati una valida alternativa di business. Un metodo sicuramente valido per contrastare la sovrapproduzione, ma senza dimenticare che la strategia più efficace rimane in ogni caso quella di non alimentare l’impulso a comprare costantemente qualcosa di nuovo.
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