Un recente studio ha analizzato milioni di fotografie utilizzando fototrappole sparse in aree protette tropicali
È stato scoperto che le specie risentono notevolmente dei fattori di stress antropici
Bisogna pensare in modo olistico per creare aree protette vantaggiose sia per l’uomo che per le specie
Proteggere la biodiversità è una delle imprese più ardue, se poi ci aggiungiamo il fatto che neanche all’interno delle aree protette le specie sono al sicuro, diventa difficilissimo. Sembrerà impossibile, sembrerà strano, ma lungo i confini delle aree destinate alla protezione delle specie, queste risentono dell’impatto umano. Un recente studio ha infatti dimostrato che ben 159 specie di mammiferi, in 16 aree protette tropicali sparse nei tre continenti, subiscono gli effetti di diversi fattori di origine umana come la frammentazione dell’habitat e la densità della popolazione.
Le aree protette non sono così protette
Le aree protette svolgono un ruolo fondamentale per la conservazione della fauna selvatica. Nonostante ciò, è sempre maggiore la preoccupazione e l’incertezza su come gli elementi di stress antropogenici influenzino la dinamica delle popolazioni all’interno delle aree protette. Tra i 23 obiettivi adottati alla Cop15 è presente quello che punta a proteggere e gestire il 30 per cento delle aree marine, costiere e terrestri della terra, noto come “30 x 30”. Tuttavia, un nuovo studio condotto da scienziati della Norwegian University of life sciences (Nmbu), Wageningen University & Research e Rice University, pubblicato su Nature, indica per la prima volta che le aree protette non impediscono alle specie di essere colpite dalle attività umane sia all’interno che all’esterno dei loro confini.
Una ricerca senza pari
“Vivere all’interno di aree protette potrebbe non proteggere automaticamente i mammiferi tropicali dagli effetti delle attività umane”, ha affermato Asunción Semper-Pascual, uno degli autori dello studio. Infatti è stato osservato che animali come il giaguaro (Panthera onca), il gorilla di montagna (Gorilla beringei beringei) o il pangolino del Borneo (Manis javanica), seppur vivendo nelle profondità della foresta, risentono ancora degli effetti attività umane. La ricerca è frutto della più ampia indagine a lungo termine mai condotta sulla fauna selvatica utilizzando fototrappole. Sono state raccolte nel corso degli anni milioni di immagini provenienti da oltre mille siti, facenti parte di una vasta rete di stazioni di ricerca sparse per il mondo tra cui il parco nazionale di Bwindi in Africa, il parco nazionale Yasuní in Sud America e la riserva forestale di Pasoh nel sud-est asiatico. Come ha dichiarato Lydia Beaudrot, altro autore della ricerca: “Questo set di dati è semplicemente fenomenale, uno sforzo erculeo diverso da qualsiasi cosa tentata prima”.
We used millions of camera-trap photos 📸 collected by the TEAM network across 16 protected tropical forests, 10 years and 1,000 camera-trap sites. We assessed how anthropogenic stressors influence occurrence dynamics of 159 mammals (2/6) pic.twitter.com/cm5XQC70QJ
— Asunción Semper-Pascual (@SemperPascual) June 26, 2023
L’impatto delle attività umane
Quello che hanno osservato i ricercatori è che specie specialiste, ovvero le specie che vivono solamente in habitat specifici, prosperano solamente quando la frammentazione dell’habitat, vale a dire quando un ambiente naturale viene diviso in frammenti più o meno disgiunti tra loro riducendone la superficie originaria, è bassa. Le specie generaliste, invece, vivono meglio in habitat diversificati dove hanno a loro disposizione una vasta gamma di cibi e ripari. Tuttavia, come ha spiegato Semper-Pascual, gli habitat sono più diversificati lungo i margini delle aree protette, dove cambiano da una fitta foresta tropicale ad aperti terreni agricoli. Purtroppo però, lungo i bordi gli animali sono più vicini alle popolazioni umane e quindi più vulnerabili alla caccia (sia per difesa degli allevamenti, che per carne o pelliccia). È stato osservato ad esempio che il tayra (Eira barbara), una specie generalista della famiglia delle donnole, prospera nelle praterie e terreni coltivati ai margini della foresta quando la densità della popolazione umana è bassa. Allo stesso modo, il pangolino arboreo (Manis tricuspis), una specie specialista che vive nel Parco nazionale di Bwindi in Uganda, ha una presenza più alta all’interno della foresta quando la frammentazione dell’habitat è ridotta.
Man mano che vengono create nuove aree protette, bisogna riflettere attentamente sui fattori che influenzano la biodiversità sia all’interno che all’esterno. Perché non si può semplicemente tracciare una linea intorno a un’area per delimitare un habitat protetto. C’è la necessità di comprendere come certe specie rispondono ai fattori di stress umani, per stabilire le priorità di conservazione e la gestione delle aree. Pensare in modo olistico potrebbe aiutare a creare situazioni vantaggiose sia per le persone che per la fauna selvatica.
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