Lo dice uno studio che ha indagato il rapporto tra l’aderenza a un regime alimentare sano e l’adesione a pratiche anti-spreco.
È lo spreco alimentare il vero baco della nostra mela. Come prevenirlo, lungo tutta la filiera
In occasione della giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare abbiamo analizzato i vari passaggi della filiera per capire dove si spreca più cibo e come.
- Spreco alimentare, una filiera di eccessi
- Sprecare meno alla radice: come si comportano i produttori
- Il torsolo della grande distribuzione
- L’altra porta del supermercato
- Il troppo stroppia
Il 5 febbraio è la giornata nazionale di Prevenzione dello spreco alimentare, istituita nel 2015 dall’agro-economista Andrea Segrè, professore di politica agraria internazionale e comparata presso l’Università di Bologna, fondatore del progetto Last Minute Market. Una ricorrenza dedicata alla prevenzione che, come dice Segrè, è la parola chiave per far fronte a un disagio che pesa sul Pianeta quanto 23 milioni di camion da quaranta tonnellate ciascuno non utilizzati. Parliamo quindi di oltre 900 milioni di tonnellate di cibo sprecato. Nel mondo, la superficie che annualmente viene usata per produrre alimenti che poi vengono sprecati è pari a 1,4 miliardi di ettari di superficie coltivabile (Rapporto Fao 2013- poi ripreso da Segrè nel 2022 ne “L’insostenibile pesantezza dello spreco alimentare”).
Il paradosso di un mondo in cui oltre 828 milioni di persone soffrono di malnutrizione e 1,6 miliardi di individui sono in sovrappeso o in condizione di obesità.
Quella tra noi e il cibo è una relazione tanto imprescindibile quanto disarmonica e spesso non tiene conto della filiera nella sua totalità. Dai campi alle nostre tavole, infatti, la distanza tra ogni anello è troppo lunga o troppo corta e mette in gioco moltissimi fattori, il che rende difficile agire ex ante, anziché post. Per questo motivo diviene ancora più fondamentale la collaborazione tra gli attori situati ai diversi livelli della filiera (produttori, grande distribuzione, ristorazione, ma anche enti governativi, associazioni e singoli cittadini), in modo che il cibo in eccesso, se prodotto, trovi il proprio posto e venga riconosciuto da tutti come bene comune.
Spreco alimentare, una filiera di eccessi
La filiera agroalimentare è il percorso che gli alimenti fanno dalla semina al consumo finale e conta diversi passaggi in cui si generano perdite o sprechi, a seconda del luogo in cui si manifestano. Le perdite alimentari riguardano i primi livelli della filiera, considerando la coltivazione del prodotto, il raccolto, il trasporto, fino all’eventuale trasformazione. La Fao ha stimato che qui si disperde il quattordici per cento del cibo a livello globale. Gli sprechi alimentari, invece, comprendono la grande e piccola distribuzione (supermercati, mercati, botteghe), ristorazione e consumo domestico, responsabile dell’11 per cento dello spreco.
In Italia sono state redatte normative come la Legge 155/2003 o “Del buon samaritano”, che consente agli esercizi commerciali di donare gli invenduti a scopo benefico. Nel 2016, la normativa è stata ripresa dalla deputata Maria Chiara Gadda, con la Legge 166/2016 o “Legge Gadda”, la quale semplifica il processo di donazione e implementa obiettivi ambientali. Inoltre, ad oggi ci sono 216 città nel mondo (tra cui Milano) che dispongono di un ufficio Food policy all’interno del comune, per incentivare sul territorio sistemi alimentari più sostenibili, lottare contro gli sprechi alimentari, garantire la biodiversità.
Sprecare meno alla radice: come si comportano i produttori
È abbastanza complicato quantificare le perdite che avvengono in agricoltura, in quanto ogni rimanenza in campo può divenire nutrimento per il terreno e poiché, spesso, le perdite agricole sono conseguenti a intemperie climatiche, infestazioni, funghi e malattie delle piante. In occidente, una delle facce delle perdite agricole riguarda lo scarto per ragioni estetiche (quelle che inducono un kiwi, per esempio, ad avere un peso standard di 62 grammi minimo e che scartano tutti gli esemplari più leggeri). Oppure, la perdita può essere causata dal prezzo di mercato, poiché spesso il costo di produzione è troppo alto rispetto al guadagno presunto.
Quali sono le principali cause dello spreco di cibo. Esempi di spreco alimentare (e di resistenza)
“Abbiamo sempre cercato di produrre in base alla stagione, vendendo ciò che la terra ci dava, ma i prezzi di mercato sono troppo bassi per le nostre arance, sfiorano i sei centesimi per chilo. Con novanta alberi arriviamo a malapena a guadagnare 500 euro, come possiamo pagare tutto il lavoro che sta dietro un raccolto?” A parlare è Gaetano Buccheri, socio dell’azienda agricola Buccheri, vicino a Siracusa. “Le nostre arance sono imperfette perché cerchiamo di utilizzare meno prodotti possibili. Perciò, magari non sono belle, ma sono sane. Il mercato, però, le vuole impeccabili e a basso costo. Le arance che pesano meno di 700 grammi non le vuole quasi nessuno, nemmeno chi fa succhi o estratti… e anche se fosse, le pagherebbero ancora meno”, continua. Il mercato è il vero nemico dei produttori, ai quali soventemente conviene lasciare in giacenza i prodotti, anziché raccogliere. Anche la concorrenza con l’estero influisce parecchio, capita che i prodotti provenienti da altri Paesi siano più convenienti di quelli locali. “Per prevenire lo spreco ed evitare di avere giacenze, bisogna capire bene quanto produrre e per chi. In gioco non ci sono solo soldi, ma anche risorse umane e naturali, non si può rischiare di perderle”.
“La produzione biologica di frutta e verdura differisce dalle colture convenzionali su molti fronti, ma su quello dello spreco è bene distinguere innanzitutto i grandi produttori dai piccoli”. Yukai Ebisuno, co-proprietario della cooperativa agricola Villaggio Verde, in provincia di Novara, inizia così la sua riflessione sulla prevenzione delle perdite alimentari in fase agricola. “Bisogna capire quanto seminare e soprattutto quanto raccogliere. La ‘tassa’ da versare alla natura ci sarà sempre, circa il dieci per cento del raccolto precedente, perché il terreno possa trarne nuovi frutti. Però, gli errori di programmazione sono i più dannosi e vanno evitati a monte, già al termine della stagione trascorsa. Questo, rispetto ad un’agricoltura di piccola scala come la nostra, anche se è comunque difficile comprendere la reale domanda”, aggiunge.
Villaggio Verde si trova all’interno di una comunità residente nata negli anni ‘80, due ettari di terreno coltivabile in un contesto ambientale particolare, quello del bosco, che permette perciò un tipo di agricoltura unica. Innanzitutto, il bosco funge da “filtro” per tutte le particelle dell’aria che arrivano dall’esterno, inoltre obbliga a un tipo di coltivazione “bio-intensiva” come la definisce Yukai, dove gli abbinamenti e le coltivazioni consociate sono l’unico modo per far fronte al poco spazio agricolo. Per esempio, tagliare radicchi, coste ed erbette sopra il colletto, anziché raccoglierli a maturazione, consente alle piante di rigenerarsi senza dover lavorare nuovamente il terreno. Yukai mi ricorda che una delle critiche fatte al biologico riguardi proprio gli scarti di alcune parti del prodotto, perché danneggiate. “Anche nell’agricoltura convenzionale, però, si scartano tutte le foglie esterne perché ‘spruzzate’ con pesticidi chimici di sintesi”, dice. “Per noi preservare la pianta, il terreno, il bosco, equivale a non sprecare risorse importanti. Se il prezzo da pagare è qualche foglia mangiucchiata, la posta non è poi così alta”.
“L’imperfezione del prodotto è insita nella mission aziendale” dichiara Gianluca Gennaro operation manager per Babaco Market. Questo e-commerce antispreco, infatti, acquista dagli agricoltori prodotti brutti ma buoni, per rivenderli in box ai propri clienti. “Tutti i prodotti ortofrutticoli che non hanno spazio nei canali distributivi ‘normali’ sono perfetti per il nostro, noi vogliamo risolvere l’eccesso di produzione. La parte più soddisfacente del mio lavoro è proprio il rendere felici i produttori che decidono di lavorare con noi. Il mio intento è quello di valorizzare il loro operato, creare legami di fiducia”(e legami trasversali alla filiera, che aggiungono anelli indispensabili alla sua sostenibilità, ndr), aggiunge Francesca Bonacina, responsabile acquisti. “Per creare una box, infatti, si parte proprio dal bisogno dei fornitori: la precedenza è di chi ha un’emergenza, chi sa di non poter immettere il prodotto in questione in altri canali e sarebbe costretto a disfarsene. Normalmente, il cinque per cento di ciò che passa al controllo qualità nella gdo viene respinto”, continua Francesca. “In genere la prima scelta è quella su cui si fanno gli accordi, la seconda scelta è più problematica”.
La previsione di acquisto da parte di Babaco, invece, viene fatta in base al numero di abbonamenti dei clienti: ogni settimana si compra solo ciò che si potrà rivendere, in modo da prevenire lo spreco. “C’è sempre uno scarto di circa il sei per cento, che serve però a ‘rimpolpare’ un po’ le box, o che viene donato tramite ulteriori canali, come Croce Rossa. Per i produttori è più difficile fare previsioni in campo, la soluzione è nel modello di acquisto della distribuzione”, conclude.
Il torsolo della grande distribuzione
Il Gruppo Orsero è leader nella distribuzione di prodotti ortofrutticoli freschi nell’Europa mediterranea. Ogni anno commercializza oltre 750mila tonnellate di frutta e verdura, da 1.500 fornitori in tutto il mondo. Parlando con Gaia Cacciabue, sustainability manager di Orsero, ho avuto la conferma che la lotta allo spreco alimentare, a questo livello della filiera, è comunque un equilibrio delicato, soprattutto se parliamo di prodotti freschi. La strategia di Orsero si basa su due pilastri: prevenzione e recupero. Si sono posti obiettivi ben precisi, ma estremamente sfidanti, tra i quali quello di testare, ogni anno, un’innovazione di processo o prodotto dedicata al contrasto allo spreco. “Ci sono pochi progetti che lavorano davvero sulla prevenzione, ad esempio per fare in modo di allungare la vita dei prodotti in fase di trasporto e conservazione”, sostiene Gaia. “In Messico abbiamo avviato una partnership con Apeel, che ha ideato una soluzione innovativa in grado di rallentare la maturazione degli avocado, grazie a una ‘doppia buccia’ a base vegetale”. Questa tecnologia può essere applicata solo a poche tipologie di prodotti, quindi risolve il problema solo in parte, nonostante sia un grande cambiamento.
Per quanto riguarda il recupero in fase di distribuzione, invece, si lavora su magazzini e stand di mercato all’interno dei mercati ortofrutticoli all’ingrosso, per recuperare il possibile prima che divenga rifiuto. “Collaboriamo con associazioni del territorio come Recup Aps a Milano, o il progetto FoodBack, inserito nel mercato ortofrutticolo Mercabarna a Barcellona, perché le eccedenze possano essere ridistribuite; sempre a Barcellona, poi, abbiamo una partnership con Es Imperfect, un’impresa sociale che fa conserve e marmellate con frutta e verdura invenduta”. La criticità principale delle attività di recupero riguarda il fattore tempo, poiché i prodotti sono altamente deperibili. Inoltre, se alcuni pezzi presentano muffe, si rischia che interi pallet vengano contaminati, rendendone impossibile l’utilizzo. Anche il fattore variabilità incide, perché la quantità e la natura delle eccedenze cambia continuamente, rendendo quasi impossibile una programmazione costante con i partner impegnati nel recupero. Per intenderci, è diverso distribuire una tonnellata di zucchine da una tonnellata di lattuga e si rischia di “spostare” lo spreco a livello di consumo domestico.
L’altra porta del supermercato
I carrelli sono sempre o troppo pieni o troppo vuoti, mancano di equilibrio. Strategie tre per due, due per uno, è difficile resistere al marketing. Come funzionano davvero i supermercati? E con che criteri acquistano, donano, oppure buttano via? Con Veronica Corchia, responsabile relazioni esterne e csr di Conad Centro Nord, ho discusso del ciclo di vita dei prodotti e di quanto bisognerebbe accorciare la filiera, perché questi possano mantenersi freschi il più possibile. Lo spreco di alimenti è ovviamente un costo per i punti vendita, che cercano di efficientare l’iter dal produttore al consumatore. Ci sono vari modi per evitarlo, tra cui cucinare i freschi per il banco gastronomia, dimezzare o scontare i prossimi alla scadenza, servirsi di app come Too Good To Go o donare ad associazioni del territorio. Poi, ovviamente, ci sono le cosiddette “rotture”, cioè articoli (generalmente a lunga conservazione) che vengono danneggiati durante il trasporto o lo stoccaggio e che possono essere recuperati, anche se non sempre accade.
“Non tutti i punti vendita possono permettersi di donare, poiché costa più che produrre rifiuti. Se si butta via basta pagare la Tari ed etichettare l’invenduto come scarto; se si dona, invece, bisogna stoccare la merce, chiamare un’associazione per il ritiro, compilare, spesso a mano, le bolle di donazione, pagare ulteriori risorse umane, tenere traccia di tutto. Servirebbe una procedura standard, uguale per tutti gli enti con cui si collabora, per velocizzare l’iter logistico del dono”, dice Veronica. Consorzio Conad è formato da cinque cooperative territoriali (tra cui Conad Centro Nord), ognuna con le sue prassi, ulteriormente differenti a seconda dei singoli punti vendita sparsi sul territorio italiano. In aggiunta, la riduzione della Tari in caso di donazione, incoraggiata dalla Legge Gadda, varia in base al comune di appartenenza, il che complica ancora di più il processo e, ça va sans dire, la burocrazia. Nonostante questo, Conad ha attivato negli anni tantissime iniziative, tra cui “Dono la spesa”, che ha raccolto 167 tonnellate di prodotti in quindici province, o la collaborazione con Emporio market solidale a Parma, un vero e proprio supermercato, dove non si paga con soldi ma con tessere a punti precaricate, in base ai componenti del nucleo familiare e alla necessità di ciascuno. “Credo che una corretta informazione, soprattutto del consumatore, sia alla base di un reale cambiamento”, conclude Veronica.
Il troppo stroppia
Per concludere questo excursus lungo la filiera, non si può non parlare della critica, influente, vivida figura del consumatore. L’indagine Waste Watcher 2022 (che riguarda sei Paesi nel mondo) ci dice che la strategia domestica anti-spreco più efficace è la lista della spesa intelligente a cui segue il controllo del frigorifero, la rotazione dei prodotti (quelli che scadono prima vanno davanti!) e il buon senso, con l’assaggio dei cibi in scadenza.
Nonostante tutto, nelle case italiane buttiamo ancora 595,3 grammi di alimenti a settimana, un dato che nel 2022 è cresciuto del quindici per cento e che ci costa sette miliardi di euro, sui quindici miliardi totali appuntati alla filiera. Il vero problema è che chi dispone del cibo spesso ne ha troppo e non solo lo butta via, ma rischia anche di sfociare nell’eccesso calorico, che è a sua volta una forma, dannosa per l’organismo, di spreco.
Dieta e spreco alimentare vanno insieme: i comportamenti alimentari corretti e l’attenzione alla preparazione e conservazione portano a ridurre i cattivi comportamenti, tra cui l’assunzione di junk food e l’atto di sprecare. L’informazione diviene così un pilastro fondamentale per sostenere i ponti che collegano l’intera filiera agroalimentare. In Italia ben nove persone su dieci ritengono che l’educazione alimentare sia la vera strategia di prevenzione, almeno per quanto riguarda il consumo domestico. Come consumatori abbiamo un potere- la scelta-, quella che può migliorare una filiera deteriorata e spronarla a produrre meno, ma meglio.
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