Le startup con una vocazione sostenibile sono sempre di più. Questa dimensione diventa quindi dirimente anche per gli incubatori che le aiutano a crescere.
Per trasformare un’idea in progetto, e un progetto in impresa, la buona volontà non basta. Servono i capitali degli investitori, certamente. Ma, prima ancora, servono competenze imprenditoriali e manageriali, spazi fisici, relazioni di valore, servizi amministrativi e legali. È questo il compito degli incubatori d’impresa: accompagnare le startup nel loro percorso di crescita. Un percorso che, sempre più spesso, non può prescindere dalla sostenibilità. Proprio gli incubatori sono al centro del nuovo report di Social innovation monitor (Sim), un team di ricercatori e professori che si occupano di innovazione e imprenditorialità e hanno la loro base operativa al Politecnico di Torino, presentato in anteprima il 10 febbraio con un evento in diretta streaming.
Cos’è un incubatore o acceleratore
L’incubatore o acceleratore (nel report di Sim i due termini sono usati come sinonimi) è un’organizzazione che supporta attivamente il processo di creazione e sviluppo di startup innovative, mettendo a loro disposizione una serie di servizi. In Italia ne sono stati censiti 229 nel 2021, 17 in più rispetto all’anno precedente. La Lombardia ne ospita addirittura uno su quattro, seguita dall’Emilia-Romagna (13 per cento) e dal Lazio (8 per cento); viceversa, la loro presenza è molto più sporadica al Sud e nelle isole.
La maggior parte è di natura privata (il 65 per cento, per la precisione) ed è stato costituito negli ultimi dieci anni (72 per cento). 47 sono certificati ai sensi del decreto legge 179 del 2012; ciò significa che rispettano determinati requisiti e, pertanto, sono stati inseriti in una sezione speciale della Camera di Commercio. Per scendere nel dettaglio dei loro servizi, il report di Sim ha analizzato un campione rappresentativo composto da 85 incubatori.
C’è sempre più sostenibilità nel mondo delle startup
Sempre più spesso, gli incubatori hanno a che fare con startup che sono nate spinte da un’autentica vocazione sostenibile o che l’hanno acquisita nel tempo. Sempre dagli studi di Sim si scopre che alla fine del 2019 in Italia c’erano 81 B Corp, un anno dopo 105. Ancora più consistente il balzo in avanti delle società benefit: da 304 a 804 in un anno. Stabile il numero delle startup innovative a vocazione sociale, pari a 221. Tant’è che ormai un incubatore su due segue almeno un’organizzazione a significativo impatto sociale o ambientale.
Tra loro c’è anche LazioInnova, società in-house della Regione Lazio nata dal riordino di altre società preesistenti e declinata su due filoni: quello dei contributi economici e quello dei servizi reali per le imprese. “Siamo un incubatore certificato con dieci sedi. Otto di esse hanno anche un’attività di incubazione fisica, ma di base intendiamo questo concetto in senso più ampio, con percorsi di accelerazione, servizi di supporto e sostegno alla creazione e allo sviluppo di impresa, all’accelerazione del go-to-market e anche all’innovazione delle imprese esistenti”, spiega a LifeGate Andrea Ciampalini, direttore generale di LazioInnova.
Mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici, protezione delle risorse marine, economia circolare, riduzione dell’inquinamento, biodiversità: questi i temi al centro del forum della @RegioneLazio che si è svolto a Dubai@ItalyExpo2020https://t.co/JRDFYNnCB6
La sostenibilità entra nella mission degli incubatori
“Il tema dell’impatto sociale è sotteso a tutto questo perché siamo un soggetto pubblico, lavoriamo con fondi pubblici, la nostra mission è lo sviluppo e la competitività del territorio e l’interesse è quello di migliorare le condizioni della cittadinanza”, continua Andrea Ciampalini. Con il tempo alcune sedi di LazioInnova si sono orientate – pur senza codificarlo formalmente – verso temi che hanno molto a che vedere con la sostenibilità, come la bioedilizia e l’economia circolare (Colleferro) o l’agrifood e il recupero degli scarti alimentari (Bracciano).
La sfida per il futuro sarà quella di arrivare a misurare l’impatto positivo delle startup incubate. Per ora gli incubatori che lo fanno sono pochi, anzi, pochissimi, come emerge dal report di Sim. Gli investitori però iniziano a chiederlo, soprattutto quelli (come molti business angel) che sono disposti anche ad accettare un ritorno economico leggermente inferiore rispetto a quello di mercato, pur di essere certi di conseguire un impatto tangibile. LifeGate ha voluto rispondere a quest’esigenza attraverso LifeGate Way, l’ecosistema per startup sostenibili che si fa carico anche del monitoraggio e della misurazione di questi parametri.
Connettere imprese consolidate e startup
L’auspicio è che la sostenibilità diventi anche la chiave di lettura con la quale interpretare le grandi trasformazioni in corso nel nostro sistema economico, in primis la digitalizzazione accelerata dalla pandemia. “Sui territori, per noi è importante dare un forte impulso alle imprese che devono reagire alle trasformazioni in corso”, conclude Ciampalini. “Parlo volutamente di imprese, non soltanto di startup, perché la connessione tra imprese mature e startup ci consente di individuare nuovi bisogni, non solo del mercato ma del sistema produttivo in generale, e di proporre delle risposte”, sottolinea. Qualche esempio di settori che dovranno inevitabilmente evolversi, meglio ancora se in senso sostenibile? La logistica, alle prese con la nuova centralità dell’e-commerce dominato dalle grandi piattaforme. Oppure il turismo nei piccoli borghi che, grazie allo smart working, possono mostrare un’attrattiva inedita. “Per questo – conclude Ciampalini – cerchiamo di far incontrare le startup che offrono soluzioni innovative con le imprese che capiscono di doversi innovare”.
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