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Le risorse degli oceani sono inestimabili: queste sei startup hanno la missione di tutelarle
Le risorse degli oceani sono innumerevoli, ma bisogna farne un uso sostenibile. Sei startup ci stanno provando, ciascuna con un approccio diverso.
Gli oceani sono uno dei pilastri fondamentali della vita sulla Terra. Coprono più del 70 per cento della superficie del pianeta, producono il 50 per cento dell’ossigeno che respiriamo e sono fonte di cibo e risorse per miliardi di persone. Eppure, i cambiamenti climatici stanno avendo un impatto significativo sulla salute dell’ambiente marino. Tra i principali effetti dell’aumento della concentrazione di CO2 in atmosfera c’è acidificazione delle acque, visto che gli oceani assorbono circa il 25 per cento di queste emissioni. Questo fenomeno ha gravi conseguenze per la sopravvivenza degli organismi marini, come i coralli. Insomma, non c’è tempo da perdere: è fondamentale agire subito per limitare le emissioni di gas serra e adottare pratiche sostenibili. Ci sono anche diverse startup innovative che, nel loro piccolo, contribuiscono alla tutela delle risorse degli oceani: ne abbiamo scelte sei.
6 startup che tutelano le risorse degli oceani
Cascadia Seaweed
Se vogliamo nutrire 9,8 miliardi di persone entro il 2050, abbiamo urgente bisogno di soluzioni efficienti, efficaci e resilienti che riducano i costi e aumentino i raccolti su larga scala. Tra le risorse degli oceani, le alghe possono essere un utile alleato in questo senso. Questo è il punto di partenza di Cascadia Seaweed, startup canadese che coltiva alghe con metodologie orientate alla sostenibilità ambientale e rispettose del clima. Come quelle terrestri, anche le foreste di alghe sottomarine sono ecosistemi critici che forniscono riparo e cibo alla fauna, catturano CO2 e producono ossigeno, mitigano l’acidificazione degli oceani e assorbono i nutrienti in eccesso. Le alghe hanno un lungo elenco di potenziali usi che vanno dagli alimenti umani ai mangimi per animali, dai cosmetici ai farmaci, dagli imballaggi alle alternative naturali ai fertilizzanti sintetici e chimici. Non stupisce dunque che la domanda di alghe continui a crescere del 6 per cento all’anno. Nel mondo ne esistono oltre 10mila specie diverse, ma quelle coltivate da Cascadia sono chiamate kelp e sono tipiche della Columbia Britannica. In questi mari Cascadia opera in collaborazione con le First nations costiere, ovvero le comunità indigene native del luogo. E non è un elemento di poco conto.
Carbonwave
Anche la statunitense Carbonwave si occupa di alghe ma, invece di coltivarle, ricicla quelle già esistenti per produrre biomateriali, come ad esempio pellame e ingredienti per cosmetici. A dire il vero il Ceo di Carbonwave, Geoff Chapin, inizialmente aveva intenzione di coltivare alghe ma poi la proliferazione di sargasso – alghe marroni, oleose e spesso pungenti – sulle coste orientali americane gli ha fatto cambiare idea. Così ha iniziato a stipulare contratti con diversi resort della Florida per raccogliere alghe infestanti e ora sta facendo lo stesso con i comuni locali. A partire da quest’intuizione, ha sviluppato tre divisioni rispettivamente per la produzione di fertilizzanti naturali (Sarga Agriscience), similpelle ed emulsionanti ad ampio spettro per cosmetici, creme e detergente (al posto di quelli realizzati coi combustibili fossili).
SharkSafe Barrier
Gli attacchi di squali sono eventi traumatici, con gravi conseguenze per l’incolumità delle persone e anche per le entrate turistiche del luogo. Se però si tengono lontani gli squali con le reti, come spesso accade, si rischia di provocare la morte dell’animale e di danneggiare anche il resto della fauna marina (balene, tartarughe, delfini e altri ancora). La startup sudafricana SharkSafe Barrier ha sviluppato una tecnologia eco-compatibile in grado di proteggere tanto le persone, quanto gli squali. Si tratta di barriera verticale fatta di tubi in polietilene ancorati al fondale, barriera che crea un effetto ottico mimando una foresta di alghe marine e al contempo generando un forte campo magnetico. Questa doppia barriera, visiva e magnetica, non può essere attraversata dagli squali e non ha alcun impatto sull’ambiente e sulla fauna.
Running Tide
Per capire cosa fa la startup Running Tide, basata in Islanda, bisogna avere chiari due concetti. Per capire il primo, cioè la pompa biologica di carbonio, basti sapere che i microrganismi acquatici aiutano a ossigenare l’atmosfera terrestre. Allo stesso tempo, tramite un meccanismo di “affondamento”, trasferiscono la CO2 (fissata tramite fotosintesi) dalla superficie alle profondità oceaniche. La pompa biologica di carbonio è il sistema di rimozione della CO2 più potente al mondo: gli oceani ne possono assorbire ogni anno 2 miliardi di tonnellate. Più in generale, il ciclo del carbonio è un ciclo naturale che regola la quantità di anidride carbonica nell’atmosfera, attraverso lo scambio del carbonio tra atmosfera, litosfera (cioè le rocce), biosfera (le piante) e idrosfera (gli oceani).
Il problema è che oggi gli oceani hanno troppa CO2 da assorbire, la quale rimane intrappolata in superficie generando un fenomeno conosciuto come acidificazione delle acque. Per questo, Running Tide interviene disseminando in acqua delle boe di carbonio che hanno il compito di riequilibrare l’alcalinità dell’oceano. Come funzionano? Le boe fissano la CO2, trasformandosi velocemente in cespugli di alghe. Una volta raggiunto un certo peso specifico, all’incirca dopo 3 mesi, affondano nel mare. Il carbonio incorporato nella boa e nelle alghe verrà così sepolto nei sedimenti oceanici e consumato dalla vita marina delle acque profonde.
Planblue
Combinare dati marini e intelligenza artificiale è l’obiettivo della startup tedesca Planblue. A Planblue, in parole più semplici, si combinano rigore scientifico e progressi tecnologici per rivoluzionare il monitoraggio dei fondali marini. Il primo passo della startup è quello di trovare una metodologia per stimare con precisione lo stock di carbonio assorbito dalle praterie di fanerogame marine. Queste ultime sono fondamentali risorse degli oceani, sia perché sono abitate da varie specie animali, sia perché immagazzinano notevoli quantità di CO2 (il cosiddetto blue carbon). Per la precisione, la CO2 stoccata dalle fanerogame è 50 volte quella immagazzinata dalle foreste pluviali: il loro ruolo per il contrasto ai cambiamenti climatici è dunque fondamentale.
Studiare i fondali marini significa interessarsi alla vita di miliardi di persone, in termini di cibo (cioè di disponibilità ittica) e regolazione del clima. I dati vengono raccolti attraverso un sistema di rilevamento chiamato DiveRay, dotato di un sensore di imaging iperspettrale subacqueo (Uhi) e alla fine vengono elaborati dall’intelligenza artificiale. Il risultato è un’immagine estremamente dettagliata dei fondali marini, praterie di piante marine comprese, da cui si può valutare il loro stato di salute e calcolare il contenuto di CO2.
WSense
Poi c’è una startup italiana: si chiama WSense ed è nata come spin-off dell’università La Sapienza di Roma. Specializzata nel monitoraggio delle acque sottomarine e di sistemi di comunicazione subacquea, WSense è pioniera dell’internet of underwater things (IoUT), ovvero l’internet delle cose sottomarine. Si tratta di tecnologie brevettate che utilizzano le onde acustiche, come quelle sfruttate dai delfini, e tecnologie ottiche senza fili.
Rendere possibile la trasmissione di dati sott’acqua serve per monitorare lo stato di salute dell’oceano: questa è in breve l’idea di partenza della startup fondata nel 2017 da Chiara Petrioli, ex-ricercatrice e insegnante alla Boston university. La tecnologia WSense consiste in componenti hardware e software per acque basse e profonde per implementare e gestire un’infrastruttura di rete internet sottomarina che operi fino a 3mila metri di profondità. L’obiettivo è quello di raccogliere in tempo reale informazioni sulla qualità dell’acqua, suoni e immagini, dati su correnti, maree, moto ondoso, movimento di strutture e ancoraggi.
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