Alla presentazione della Fondazione Giulia Cecchettin, il padre Gino parla di “amore da diffondere nell’ecosistema”, il ministro no.
La storia della morte di Stefano Cucchi nella seconda vita di Ilaria
Stefano Cucchi è morto nel 2009. Nello stesso anno della sentenza definitiva, la sorella Ilaria entra in Parlamento per la prima volta.
- Il momento della morte di Stefano Cucchi
- Le prime indagini sulle responsabilità dei medici
- Dal pestaggio al depistaggio: gli altri filoni d’inchiesta
- Cucchi come caso politico e culturale
- Quale eredità ci ha lasciato il caso Cucchi
Ilaria Cucchi è stata eletta senatrice della Repubblica alle elezioni politiche del 25 settembre 2022. Una donna che ha dovuto esporsi, diventando personaggio pubblico, suo malgrado, a causa della tragica morte di suo fratello Stefano. Ripercorriamo la sua storia per capire com’è morto Stefano Cucchi, come si è arrivati ad affermare che sia stato ucciso di botte dai carabinieri che lo hanno trattenuto quella notte in cella. Lo facciamo ora che la sua eredità è entrata in parlamento grazie all’elezione di Ilaria. Un’eredità che ci racconta quanto sia possibile proteggere la verità e ottenere giustizia, nonostante tutto e tutti.
“Possiamo mettere la parola fine sull’omicidio di Stefano”, aveva detto Ilaria Cucchi subito dopo la sentenza. “Possiamo dire che è stato ucciso di botte, che giustizia è stata fatta nei confronti di coloro che ce l’hanno portato via”. I carabinieri Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro sono stati condannati il 4 aprile 2022 per omicidio preterintenzionale a dodici anni di reclusione. Ma il pestaggio di Stefano Cucchi è stato solo la “causa primigenia” – come scrive la Cassazione nelle sue motivazioni – di una serie di “fattori sopravvenuti”, tra i quali anche le “negligenti omissioni dei sanitari”.
Il momento della morte di Stefano Cucchi
Il cammino verso la morte di Stefano Cucchi comincia la notte del 15 ottobre 2009, quando Stefano, che all’epoca aveva 31 anni, viene fermato dai carabinieri in possesso di 20 grammi di hashish e tre dosi di cocaina. Portato in caserma, Cucchi viene prima posto in stato di arresto e poi accompagna i carabinieri alla propria abitazione per una perquisizione generale. In quel frangente, Stefano incontra i suoi genitori, con i quali vive. La madre di Stefano non sa che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui avrebbe visto suo figlio ancora in vita.
Durante la perquisizione non viene rinvenuto nulla di rilevante e il ragazzo viene portato in caserma. In attesa dell’udienza di convalida dell’arresto, Stefano rimane recluso in una camera di sicurezza. È notte e il ragazzo riferisce al piantone di turno di non sentirsi bene, pertanto viene chiamato il 118, ma Stefano rifiuta di farsi visitare. Il mattino seguente, Stefano si presenta in aula di giudizio mostrando difficoltà a camminare e a parlare e mostrando evidenti ematomi agli occhi. Il ragazzo scambia poche parole con suo padre accorso all’udienza, ma non riferisce cosa gli sia successo.
Il giudice convalida l’arresto di Cucchi disponendo la prima udienza del processo per il successivo 13 novembre. Nonostante le sue condizioni di salute, Stefano viene portato al carcere Regina Coeli, dove il suo stato di salute peggiora. La notte del 16 ottobre viene condotto al pronto soccorso dell’ospedale Fatebenefratelli, dove gli vengono diagnosticate lesioni ed ecchimosi alle gambe e al volto con frattura della mandibola, all’addome con ematuria, e al torace (con frattura della terza vertebra lombare e del coccige). Stefano Cucchi rifiuta il ricovero e viene quindi ricondotto in carcere.
Le sue condizioni si aggravano ancora e così viene trasferito al reparto detenuti dell’ospedale Sandro Pertini, dove muore all’alba del 22 ottobre. Al momento del decesso pesa solamente 37 chilogrammi. I suoi parenti, ai quali viene impedito a più riprese di conoscere le condizioni fisiche dell’incarcerato, vengono informati della morte di Stefano solo quando un ufficiale giudiziario si reca presso la loro abitazione per notificare il decreto col quale il pubblico ministero autorizzava l’autopsia sul corpo di Stefano.
Le prime indagini sulle responsabilità di medici e carabinieri
Da qui partono le prime indagini. Il personale carcerario si smarca subito dalle accuse negando di aver commesso violenze sul detenuto e sostenendo che la morte potesse essere associata all’abuso di droga, anoressia, tossicodipendenza. Per contrastare le false affermazioni intorno alla morte di Stefano, i suoi familiari pubblicano in rete le foto scattate all’obitorio, nelle quali si vedono sul corpo i segni delle contusioni e l’evidente stato di denutrizione. Per Ilaria, la sorella, e i genitori non ci sono dubbi: Stefano è stato picchiato.
Ad aprile 2010, la procura di Roma rinvia a giudizio tredici imputati: tre agenti della polizia penitenziaria (per lesioni e abuso di autorità) e dieci tra medici e infermieri dell’ospedale Pertini, ai quali vengono contestati i reati di favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falso ideologico. Secondo l’accusa, chi era in servizio al Pertini si è limitato a prendere atto del rifiuto del ragazzo, motivato dalla volontà di parlare con il proprio avvocato. Tra le altre omissioni, invece, c’è il mancato trasferimento del paziente con urgenza in un reparto più idoneo quando le condizioni di salute erano ormai diventate critiche.
Il 13 dicembre 2012 si apre il processo di primo grado. I periti incaricati dalla corte stabiliscono che a causare la morte del giovane furono sì le mancate cure mediche e la carenza di cibo e liquidi ma che per quanto riguarda le lesioni riscontrate, queste potrebbero essere state causate da un pestaggio oppure da una caduta accidentale. I periti sottolineano che non vi sono elementi che facciano propendere per l’una piuttosto che per l’altra dinamica.
Il 5 giugno 2013 la Corte d’assise di Roma condanna in primo grado cinque medici dell’ospedale a un anno e quattro mesi, il primario a due anni di reclusione per omicidio colposo, un altro medico a otto mesi per falso ideologico, mentre assolve sei persone: tre infermieri e i tre agenti della polizia penitenziaria, i quali – secondo i giudici – non hanno contribuito alla morte di Cucchi. Le pene vengono sospese per tutti e la lettura della sentenza provoca lo sdegno da parte dei familiari di Stefano. Il 31 ottobre 2014, la Corte d’appello assolve tutti gli imputati, medici compresi.
La sorella di Stefano, Ilaria, attiva fin dall’inizio della vicenda, non si ferma e annuncia il ricorso in Cassazione nonostante la querela ricevuta dal sindacato della polizia, secondo cui quelle di Ilaria sono “illazioni” contro le forze dell’ordine. Il 15 dicembre 2015, la Cassazione dispone il parziale annullamento della sentenza di appello, ordinando un nuovo processo per cinque dei sei medici (ed escludendo ancora una volta la responsabilità dei poliziotti): per la corte, gli stati patologici di Cucchi avrebbero richiesto maggiore attenzione e approfondimento da parte dei sanitari.
Si arriva così all’appello-bis, celebrato il 18 luglio 2016, che però assolve nuovamente i cinque medici con la formula “il fatto non sussiste”. Ma non finisce qui: il 19 aprile 2017, la Cassazione dispone l’annullamento anche di quest’ultima sentenza e il 23 marzo 2018 si apre l’ennesimo processo d’appello. La parola fine del primo filone d’indagine, che si è concentrato sulla responsabilità del personale medico, arriva il 14 novembre 2019 con l’assoluzione di tutti gli imputati (in realtà, per il primario è intervenuta la prescrizione).
Dal pestaggio al depistaggio: gli altri filoni d’inchiesta
Mentre il primo filone si concentrava sulle responsabilità del personale medico e si chiudeva con l’assoluzione, la famiglia Cucchi era tornata a chiedere espressamente di indagare sulle responsabilità dei poliziotti che quella notte avevano in custodia Stefano.
L’insistenza della sorella Ilaria e dei genitori, infatti, convince la procura di Roma, nel settembre 2015, a riaprire il fascicolo d’indagine per omicidio preterintezionale ai danni della polizia penitenziaria. Fondamentale è la testimonianza di uno dei carabinieri, Riccardo Casamassima, il quale riferisce di aver ricevuto minacce dai colleghi al fine di fornire una falsa versione dei fatti nell’ambito del processo d’appello. Emerge così che, al contrario di quanto riportato dai documenti ufficiali dell’arma nel precedente processo, dopo la perquisizione domiciliare Cucchi non è stato immediatamente ricondotto nella stazione dei carabinieri ma è stato prima portato a un’altra caserma per il foto-segnalamento e, per ragioni mai del tutto chiarite, lì viene picchiato.
È una testimonianza shock e le indagini preliminari si chiudono il 17 gennaio 2017, quasi otto anni dopo il fatto, con il rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e abuso di autorità nei confronti dei militari dell’arma dei carabinieri Alessio Di Bernardo, Raffaele D’Alessandro e Francesco Tedesco, accusati di aver colpito Cucchi con schiaffi, pugni e calci, facendolo cadere e procurandogli lesioni, quelle che poi, a causa anche della condotta omissiva da parte dei medici curanti, si rivelano mortali.
Tedesco e il maresciallo Roberto Mandolini, che all’epoca dei fatti era il comandante della stazione Roma Appia dove è avvenuto il pestaggio, devono anche rispondere dell’accusa di falso ideologico per l’omissione nel verbale d’arresto dei nomi di Di Bernardo e D’Alessandro. Tedesco e Mandolini, inoltre, insieme all’appuntato Vincenzo Nicolardi, vengono accusati anche di calunnia poiché hanno reso dichiarazioni false nel precedente processo. Il 24 febbraio 2017, Di Bernardo, D’Alessandro e Tedesco vengono precauzionalmente sospesi a tempo indeterminato dal loro incarico e il 10 luglio dello stesso anno viene accolta la richiesta di rinvio a giudizio degli indagati.
L’udienza si apre nell’ottobre 2018 e subito i militari si scambiano le accuse: Francesco Tedesco indica in Di Bernardo e D’Alessandro gli unici autori del pestaggio. Il procuratore, durante questa udienza, informa la corte di quanto era emerso nel frattempo dalle indagini, in particolare dei tentativi di depistaggio. A giugno, infatti, Tedesco aveva presentato alla procura di Roma una denuncia contro ignoti, nella quale lamentava la scomparsa di un’annotazione di servizio da lui redatta il 22 ottobre 2009 e indirizzata ai suoi superiori, nella quale esponeva i fatti accaduti nella notte fra il 15 e il 16 ottobre precedente. Da questo fatto si apre una nuova indagine, dedicata a far luce sui tentativi di depistaggio.
Intanto, il 14 novembre 2019, la corte di assise di Roma riconosce Di Bernardo e D’Alessandro colpevoli di omicidio preterintenzionale, condannandoli a 13 anni di reclusione e all’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Condanna che viene confermata in via definitiva dalla corte suprema di Cassazione il 4 aprile 2022 riducendo la pena a 12 anni. Tedesco viene assolto dalla Cassazione per il reato di omicidio preterintenzionale, ma condannato a 2 anni e 6 mesi per falso, stesso reato per cui viene condannato il maresciallo Mandolini. Il 7 aprile 2022, anche il processo per depistaggio arriva a una conclusione, con otto carabinieri (tra cui generale, colonnello, comandante, quindi un’intera catena di comando) condannati a scontare complessivamente 22 anni di carcere.
Cucchi come caso politico e culturale
La storia di Stefano Cucchi è stata strumentalizzata da una certa parte della politica italiana, che sulle prime difese a spada tratta l’operato delle forze dell’ordine. Tra questi, l’allora ministro della giustizia Angelino Alfano, il quale sostenne che Cucchi sarebbe morto in carcere per una caduta. Poi fu il turno dell’allora sottosegretario Carlo Giovanardi, il quale dichiarò che Cucchi era morto soltanto di anoressia e tossicodipendenza, asserendo che il ragazzo fosse sieropositivo. Successivamente, Giovanardi si pentì delle sue false dichiarazioni e si scusò con i familiari. Anche l’ex-ministro degli interni Matteo Salvini se ne uscì dicendo che “il caso dimostra che la droga fa male”, commento che il leader della Lega rilasciò dopo la sentenza di condanna dei carabinieri del 2019. Per questa esternazione, Ilaria Cucchi querelò Salvini.
Più in generale, il caso Cucchi ha dimostrato quanto la criminalizzazione della vittima sia una costante in casi di “malapolizia”, dove cioè la responsabilità ricade sull’istituzione che dovrebbe invece difendere le vittime. Una categoria in cui generalmente ricadono tossicodipendenti, migranti, senzatetto, che spesso vengono percepiti come “zavorre sociali”. In nome del decoro e della sicurezza nelle città si criminalizzano e reprimono gli stili di vita dei più emarginati, così chi ricade in questa condizione fa fatica a richiamare l’attenzione per ottenere giustizia.
Possiamo dire che il caso Cucchi ha ricevuto una grande attenzione mediatica per merito della sorella Ilaria. Grazie al suo attivismo, oggi esiste un’associazione dedicata al fratello impegnata a dare voce agli altri casi analoghi. Che sono tanti, addirittura 26 nel solo 2009, l’anno in cui Stefano morì. Parliamo di persone morte in carcere senza che ne sia stata accertata la causa, come nel caso del tunisino Kayes Bohli, morto di asfissia durante il trasporto in caserma, oppure di quei casi per i quali i familiari stanno ancora lottando per vedere applicati i propri diritti, come nel caso di Aldo Bianzino, arrestato per il possesso di marijuana a uso personale e morto in carcere. Questi sono solo alcuni dei tanti casi di “malapolizia”, ovvero gli abusi in divisa, e molte di queste indagini sono ancora in corso. I casi più eclatanti, però, sono sicuramente stati quelli relativi alla morte di Federico Aldrovandi del 2005 (che si è chiuso con la condanna di quattro poliziotti) e di Francesco Uva del 2008 (per questo fatto, invece, i poliziotti accusati furono assolti).
E poi Stefano Cucchi e l’attivismo di Ilaria hanno ispirato molte opere culturali, tra cui film (per esempio “Sulla mia pelle” con Alessandro Borghi distribuito da Lucky Red e Netflix), documentari, libri di inchieste, graphic novel e canzoni (scritte e interpretate da Coez a Fabrizio Moro, dai 99 Posse a Levante, solo per citarne alcuni).
Quale eredità ci ha lasciato il caso Cucchi
Dal giorno del suo arresto e fino alla sua morte, Stefano Cucchi ha attraversato un numero elevato di luoghi istituzionali, addirittura 11 tra cui due caserme dei carabinieri, le celle di sicurezza, le aule e l’ambulatorio del tribunale di Roma, l’infermeria e una cella del carcere di Regina Coeli, il pronto soccorso del Fatebenefratelli, il reparto detentivo del Sandro Pertini. Nonostante le tante persone incontrate, nessuno lo ha preso in carico.
Cosa ci insegna la vicenda di Stefano Cucchi? Prima di tutto, cosa significa tenere alta l’attenzione. Riportando le parole di Luigi Manconi, ex-senatore e presidente dell’associazione A Buon Diritto: “Quello di Ilaria e dei genitori era stato un gesto inaudito: avevano rinunciato a una parte del proprio lutto – il più riservato e intimo dei riti familiari – per condividerlo con altri, lontani e sconosciuti. Così facendo, avevano dismesso una porzione del proprio dolore, che avrebbe richiesto segreto e silenzio, per affidarlo ad altri, affinché ne facessero un buon uso pubblico. E così è stato”.
Eppure manca ancora, in Italia, una riflessione su quali siano i rischi che un’impunità generalizzata, precauzionale, delle forze dell’ordine possa generare sui diritti delle persone più deboli, emarginate, detenute. Come ha dimostra il caso delle violenze nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. “La sentenza di aprile ha finalmente fatto pronunciare alla famiglia Cucchi la parola giustizia: era doveroso da parte dello stato italiano che si arrivasse a ciò, anche se il percorso è stato ostacolato, lungo e tardivo”, commenta Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International (organizzazione che sulla storia di Cucchi ha anche prodotto un documentario).
“La sentenza ci dice che qualcosa di assai grave, dal punto di vista delle violazioni dei diritti umani, è avvenuto nel nostro paese e, alla luce di altre sentenze, sebbene spesso non commisurate alla gravità dei fatti, ci dice che non si è trattato di casi isolati”. E conclude Noury. “Sarebbe bello e importante se questa sentenza avesse valore anche di deterrenza e prevenzione; che, in altre parole, mandasse il segnale chiaro e inequivocabile alle forze di polizia che comportamenti criminali non saranno tollerati né coperti ma puniti. Su questo, pur nella speranza che ciò accada, è lecito avere un minimo di dubbio”.
Ora, grazie alla sua elezione, Ilaria Cucchi può portare in Parlamento l’eredità di Stefano e rappresentare chi come lui non ha avuto voce per far conoscere la propria ingiustizia.
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